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Soffici stelle

 

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Il fiume scorreva veloce perché l’ansa con la sua curva accelerava l’acqua con la forza centrifuga. Dall’arteria principale, che continuava dritta e asfaltata verso fino alla missione, scendeva verso le baracche un ampio sentiero battuto di terra polverosa. Grandi sassi sporgevano bianchi e levigati. Prima del fiume erano rimasti alcuni grandi alberi intorno ai quali si era conservato un piccolo bosco verde. Da quel punto in poi il sentiero si faceva più stretto e s’inoltrava tra arbusti grassi e scheletrici dall’infiorescenza gialla e acida buona per i moscerini.

Crescevano celando il loro segreto in se stesse le piante. Crescevano dove la terra era stata lasciata incolta, esprimendosi come sapevano, mostrando una straordinaria quanto infantile capacità di controllare le forme.

Non la semplicità astratta e perfetta della linea, ma quella concreta d’un filo d’erba, semplicità goffa che ride. Non c’erano fiori da cogliere ma solo linee verdi buffe. Sander avrebbe voluto che crescendo perdessero quel loro aspetto incompleto per diventare pura, matura, totale verità.

Lui avrebbe voluto che svelassero il loro segreto. Il seme per essere pianta aveva dovuto, doveva, imparare a diventare quello che sarebbe diventato, era necessario che apprendesse a essere ciò che sarebbe stato. E così un seme sepolto al buio, senza il senso dell’alto e del basso, senza nessuno e niente a guidarlo trovava la sua strada verso il sole. Quella del seme era un’intuizione più che un’idea. Ammesso che il seme pensasse. Cosa che in un qualche modo doveva pur fare per crescere.

Anche Sander aveva piantato le sue radici come un seme, ma senza trovare la superficie. Era cresciuto senza luce. Non aveva avuto quell’intuizione che ha sempre il seme di andare e crescere verso l’alto. Sander l’aveva trasformata in un’idea. Da intuizione della vita ad idea della vita. Questo passaggio era avvenuto perché i suoi riflessi si erano cristallizzati come fosse una crisalide rimasta nel bozzolo finita sul fondo della terra.

Da sempre sapere cosa provano mille semi che crescono rimanendo perfettamente all’oscuro, lontano dalla superficie, impantanati.

La sagoma scura di un albero come un silenzio nascondeva il tramonto. La luce era tutta a ponente, il grande occhio si stava chiudendo con un pesante rossore sulle lunghe ciglia.

Dallo stagno venivano sottili rumori di rapidi movimenti, il ragno d’acqua pattinava e dai cerchi d’acqua che si formavano veniva una piccola vibrazione che toccava chi riusciva a sentirla.

 Dopo lo stagno una striscia di terra sabbiosa, umida e morbida lo separava dal fiume. Era un piccolo canale verso il mare. Le foglie erano la pelle di un grande dinosauro addormentato.

La striscia di bosco era finita e Sander era uscito in uno spiazzo di terra rossa, sottile, sabbiosa, bruciata. Crescevano vaporosi cespugli dai piccoli rami ritorti, con minuscole foglioline rinsecchite e gialle, come vecchie litanie petulanti al vento un lamento snervante e aculei di spine le difendevano. Il paesaggio per un lungo tratto era rimasto lo stesso, con il fiume addossato alla sua sponda e il campo di ortiche e spine. 

Sander si chiedeva se non c’era non fosse altro di un film senza personaggi. “non c’è nient’altro” disse piano. Intendeva dire chiaramente che lui c’era. Sentiva la punta dei suoi capelli brevi e corti sulla testa. E sentiva la cute che rivestiva la testa e sotto la testa, la calotta cranica, si percepiva. le sue microscopiche fessure e le sue sommarie saldature. L’orecchio appuntito e quello sano. L’occhio nel bulbo e l’occhio legato alla corda di nervi; vagamente sentiva che tutte le immagini erano capovolte. E allora cosa succedeva? Che il sole era solo un limone. E lui lo vedeva a dispetto dell’oscurità. C’era un limone oltre a lui c’era un limone, sopra una nuvola, in mezzo agli alberi sopra alla sua testa, dentro il suo tessuto connettivo, nel cielo.

In quel momento in cui il giorno da una notte scura veniva sostituito un’altra notte pareva il giorno e il bianco si era tutto assottigliato in una sottile striscia mentre l’azzurro si tramutava in lana blu e soffici stelle, gli era sembrato che la sua strada coincidesse con la strada che portava a Nessun, il suo villaggio.

 

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Quello era il suo tempo, la sua posa, il suo gesto; era il movimento del colore che abbandonava la terra, niente che fosse restato più del tempo necessario per cambiare, in quell’istante in cui il frenetico mutarsi d’abito stordiva lui si era sentito vivo.

Alla luce della prima stella aveva visto davanti a sé le sagome scure delle baracche del villaggio. Camminare era diventato faticoso il passo si era fatto pesante e il suo umore più greve, i suoi pensieri più foschi. Come rapito da mille voci, parole, sorrisi, sguardi e ricordi di Nessun vagava mnemonicamente senza più fare caso a cosa lo circondasse.

Solo l’enorme volta stellata del cielo sembrava esistere. La mente vi si trovava a proprio agio e la percorreva in ogni direzione, dai punti più luminosi del centro verso la periferia soffermandosi su una luce tra le infinite.

Un’asse di legno da sempre era stata dimenticata e si era gonfiata con il freddo e il caldo, i duri nodi del legno si erano spezzati e si era scheggiata con il maltempo.

Due pali di legno facevano da colonne del porticato della casa abbandonata, il tetto era sfondato,  le finestre senza vetri erano spalancate, alcuni infissi erano caduti, il pavimento si era scollato qua e là, e vi erano di sabbia foglie e polvere portati dal vento. 

La luce nelle altre case era stata lasciata accesa. Gli scalini erano tre e salivano verso la porta che era stata lasciata aperta. I pali di legno correvano tutt’intorno alle case, i tetti s’inclinavano leggermente verso il centro, lungo i muri le finestre chiuse avevano vetri puliti e trasparenti.

Intorno ai tavoli erano disposte le sedie con lo schienale appoggiato al bordo. Nei mobili erano stati ordinatamente riposti i piatti, le tovaglie, le pentole, i pantaloni, le camicie, i maglioni, gli strofinacci per la polvere e quelli per lavare per terra, gli utensili per il giardinaggio e quelli per i lavori domestici, le forchette, i cucchiai, i coltelli, le coperte, le lenzuola, le scatolette di piselli, di fagiolini, di fagioli, di ananas, di acciughe, il dentifricio e lo spazzolino, le carte da gioco, il sale, il pepe, lo zucchero e... l’Irt.

Ogni persona aveva ricevuto l’Irt in un momento imprecisato della sua vita. L’Irt era diverso per ogni persona. Paura c’era anche se parlarne non era vietato. Non era vietato perché non si poteva proibire qualcosa che non esistesse. E seppure esistesse era come se non ci fosse. Questo fatto era accettato tacitamente. L’Irt dove essere considerato un segreto, prima che con gli altri, con se stessi...

Quella sera gli era stato dato un compito ingrato che lo faceva sentire male. Quando era arrivato nella sua casa aveva trovato un messaggio che stava chiuso in un cilindro di plastica.

Sander aveva estratto il foglietto che riportava in un linguaggio codificato di livello medio un ordine del dipartimento Supremo.

C’erano diversi linguaggi usati. Nel villaggio si usava uno alfabetico di media difficoltà. Poi c’erano diversi altri tra i quali quello matematico che usava Sander. Era molto complesso e semplice allo stesso tempo. Lui non ne sapeva lo scopo. Capiva però che non si trattava di persone che parlavano tra loro. Era come qualcosa che era vivo, il suo destinatario segreto a cui scriveva numeri e lettere, senza sapere di esserlo il destinatario doveva capire di esserlo e il suo compito consisteva proprio in questo essere vivo, e farglielo capire matematicamente.

 

 

Il biglietto si stava distruggendo rapidamente nelle sue mani mentre lui faticosamente cercava di tenere nella mente quelle parole. Erano state scritte nel linguaggio corrente eppure avevano un suono che lui non riconosceva. Per la prima volta nella sua vita aveva letto la parola Irt.

Questa parola gli aveva dato una violenta vertigine. Dopo il lavoro apriva l’armadio e c’era una radio. Si metteva le cuffie sulla testa e trascriveva su un foglietto di carta la frase da tradurre e su un altro la traduzione poi apriva il canale 01K e inviava la risposta digitando sulla tastiera numerica le frasi.

Aveva solo il tempo di prendere il memorizzato. Il memorizzatore era una bobina magnetica che funzionava in un apparecchio grande come una scatola di fiammiferi. Si era piegato a raccogliere il cilindro di plastica e aveva controllato che il foglietto si fosse volatilizzato. Il cilindro era una prova, un rimando a qualcuno, doveva essere chiuso in una borsa di nailon adatta che avrebbe dovuto portare con sé.

La porta si apriva verso l’esterno, leggera e bianca, aveva aspettato prima di uscire che non ci fosse nessuno in strada. Seppure nessuno avrebbe fatto caso a lui e a quello che faceva sentiva che non doveva farsi vedere. La strada era deserta. Aveva respirato un profumo lontano che solo per un istante aveva riconosciuto con precisione ed era diventato un ricordo di quando era bambino.

Con le maniglie della borsa di nailon in mano aveva raggiunto la casa di Ulrik.  Era salito su tre gradini ed era entrato nella cucina. Doveva trovare l’asse di legno che suonava vuota. Sotto c’era l’Irt di Ulrik.

Questo era il senso del messaggio che gli era arrivato. Prendere l’Irt di un'altra persona del villaggio. Lui non ne era certo, eppure, era sicuro che una cosa del genere non fosse mai accaduta. Aveva iniziato l’ispezione dal muro bianco che era stato lasciato spoglio. Muovendo i piedi piano quel tanto che bastava per battere il tacco e sentire se vi fosse qualcosa sotto. Era entrato il vento e aveva fatto oscillare la lampadina. L’ombra della credenza lo aveva avvolto.

Ripensava a quel profumo che aveva sentito sulla soglia di casa sua. Era il giorno in cui era scappato. Ricordava il grande portone di ferro che si era aperto e lui che aveva incominciato a correre. Quasi non si potesse trattenere rapito da una forza irresistibile. Era successo molto tempo prima. Quello era l’unico ricordo che avesse della sua infanzia. Prima sapeva di essere stato in un luogo buio come una piccola stanza con una finestra sempre chiusa.

Aveva sentito che era vuoto sotto l’asse. Si era chinato e aveva infilato una lama tra le due assi di legno. Senza fare resistenza si era sollevato un listello dal pavimento e avevo scoperto una scatola nera. Era rettangolare e aveva tutte le facce lisce. Con una leggera pressione su di un lato si apriva scoprendo all’interno una tastiera e un piccolo schermo.

Intanto, quel ricordo che aveva avuto era diventato un’immagine nitida. Era una giornata di sole e la strada era bianca. Lui aveva corso fino alla missione. Il brillare delle cose era accecante.

Non vedeva altro oltre un cielo di luce. Era arrivato nello spiazzo e per la prima volta era solo. Senza saperlo cercava una persona. L’unica che avesse mai conosciuto.

Un missionario stava andando verso di lui, vestito con una tunica bordeaux . Lui vedeva solo un’ombra avvicinarsi. Quando gli era stata di fronte aveva riconosciuto la lunga barba bianca, i denti scoperti dal sorriso e gli occhi socchiusi e fissi su di lui. Si era mosso in avanti, lo aveva abbracciato e lui aveva pianto.

A questo ricordo ne era seguito un altro quando la sera precedente a questa aveva ascoltato una frase così diversa da quelle che aveva sempre tradotto. Non aveva capito il senso. Fino a quel momento tutto era stato più semplice. Erano frasi, pensieri, parole che andavano scritte in linguaggio F-numerico.

Ma quella frase non proveniva da discorsi che conosceva era stata detta in un altro luogo che lui non poteva immaginare quale fosse e da una persona sconosciuta. Aveva dovuto lavorare tutta la notte per scrivere la risposta.

La scatola di Ulrik era aperta davanti a lui. Sander la aveva presa delicatamente si era alzato e la aveva appoggiata sul tavolo poi aveva scostato la sedia e si era seduto. Ora lui aveva raggiunto il suo scopo, prendere l’Irt di un uomo morto, di cui conservava un ricordo infantile mentre tutti vegliavano la sua salma e lui aveva il segreto del missionario Ulrik.

Il messaggio non diceva nulla a proposito dal farsi. Si sentiva solo e libero. Tutti erano sulla spiaggia a vegliare la salma in attesa del nuovo giorno. Dalla casa si sentiva il rumore del mare. Era tutto diverso adesso lui voleva scoprire la verità. Così aveva inserito la scheda e quando lo aveva fatto sullo schermo erano apparsi tutti i nomi possibili del villaggio.

Aveva sentito il suono delle onde farsi più forte. Era un rumore lontano, appena percepibile.

Aveva selezionato il suo nome e sullo schermo era apparso un filmato di un bambino intento a giocare con le costruzioni. Al margine dell’immagine erano riportate alcune indicazione sulla velocità e tempo dei suoi movimenti. Al margine dello schermo qualcuno aveva selezionato il suo compito nel villaggio e quale Irt gli sarebbe toccato in sorte. Semplice.

Doveva essere sulla spiaggia per l’arrivo dell’astronave. Aveva collegato il memorizzatore ai circuiti dell’Irt di Ulrik.

 

 

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La scatola era stata messa nella borsa e, il cilindro, e la bobina con i dati copiati. Vi era una doppia codifica. Il memorizzatore andava portato nella casa abbandonata, mentre la borsa con il suo contenuto andava messa vicino al cadavere.

Ora ricordava era stato proprio Ulrik che in quella giornata di sole lo aveva abbracciato e gli aveva detto “Non avere paura!”

Ulrik riposava in attesa del suo viaggio. Lui sapeva che cosa lo attendeva. Altri dei missionari condividevano il suo segreto? Lo avrebbero vegliato fino all’alba guardando in alto il farsi piume delle nuvole. Quello era il mistero più inviolabile, quello che nessuno conosceva, quello che suscitava la maggiore paura.

La ricerca non doveva essere del tutto tralasciata, da parte degli altri missionari riguardo a Ulrik, forse era diventa un’ossessione, non c’è che il Dipartimento Supremo e il silenzio della missione. Il segreto di un altro uomo per gli altri; anche astratto. Ma lui non ne era partecipe, la sua domanda era confusione, Sander solo eseguiva un ordine e questo rendeva tutto normale, capire Ulrik e la missione era invece anormale.

Era entrato nella casa abbandonata e aveva preso in mano il memorizzatore. Aveva controllato i dati contenuti nelle bobine e mancava un nome. Nel backup i dati copiati erano differenti. Non era stata registrata nessuna informazione riguardo ad un missionario no era stata memorizzata una combinazione di lettere molto semplice G O A R, la matrice era incompleta. Ricombinando le lettere dell’alfabeto romano per solo quattro lettere diverse (A, G, O, R) ne risultavano 65535 quaterne. Ne mancava una, un nome che sulla carta ora doveva esistere. Goar. Queste lettere erano state scelte da Sander, inconsciamente.

 Sander aveva preso la strada per raggiungere la spiaggia. Tra le dune di sabbia crescevano cespugli come piccoli alberi.

Con la mente era ritornato alla sera precedente quando aveva dovuto assolvere il suo Irt e tradurre. Non aveva mai tradotto una frase simile in linguaggio F-numerico. Lui sapeva che quando lo faceva doveva dimenticare di esistere e di pensare. Doveva pensare che esistesse un solo elemento e alle combinazione spaziali di quell’elemento con se stesso. L’ultima cosa che aveva trasmesso era che l’unità sottratta all’unità dava unità differente da unità. Il senso di quelle parole potevano essere “io sono io”.

Sulla spiaggia i missionari stavano discutendo animatamente. Uno di loro non voleva andarsene dalla piattaforma in mezzo al mare. Un ponte galleggiante la univa alla terraferma.

Sander aveva raggiunto il cadavere di Ulrik e aveva depositato il suo Irt accanto. Un missionario con il cappuccio alzato stava parlando ad un altro missionario. “Non puoi restare qui te ne devi andare prima che arrivi.”

In quel momento Sander sarebbe dovuto andare via dal pontile, ritornare senza disobbedire, pensare bene a cosa facesse, ma gli era impossibile. L’ora era prossima e la paura aveva spinto tutti ad abbandonare la piattaforma, tranne lui.  Era rimasto soltanto Sander come fosse tra le onde.

Lentamente un’ombra nel cielo si stava facendo sempre più grande fino all’essere gigantesca sopra di lui. L’astronave.

 

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La missione era un basso edificio dalla struttura rettangolare. Venendo da Nessun bisognava seguire la strada fino ad uno spiazzo circolare con al centro un palo che reggeva un cartello. Sul cartello vi erano delle sbiadite lettere con parole scritte in un linguaggio sconosciuto. Per tutti vi era stata scritta la parola “mondo”. Anche se questa suonava in modo strano nella mente delle persone, evocando un’idea confusa e scolorita, senza margini precisi.

Dopo aver percorso questo spazio di terra non ci si trovava all’ingresso, per raggiungerlo bisognava seguire per un lungo tratto un sentiero che incominciava dove finiva lo spiazzo cioè a ridosso dei due muri. Da li partiva quello che appunto seguiva di molto il sentiero e l’altro muro più breve, chiudeva lo sguardo, senza che si potesse vedere cosa vi fosse alle  spalle.

 

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