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L’edificio iniziava da quel punto, un angolo più precisamente tra un’ombra e una lunga visione di bianco, dove la luce del sole da un lato batteva sempre e dall’altro non sembrava arrivare mai.

Lungo la facciata di quattro piani si aprivano file regolari di finestre. Erano ben visibili perché di dimensioni notevoli, avevano un arco che le chiudeva, ed erano di un vetro unico. Rientravano nella parete con un bordo, una rientranza evidente, morbidamente sagomata. Vi era sempre a tagliare questo spazio, questa cornice di calcestruzzo, una grata ombra.

Erano state fatte ad un’altezza le prime finestre che davano sul prato che alberi dai rami a ventaglio verdi di foglie le semi coprivano. Poco più alte delle persone che le camminavano accanto. Non si poteva dunque scorgere cosa vi fosse all’interno senza esservi entrati. E questo era possibile solo dal portone, che era solo uno e posto al centro, ampio e alto a tagliare fino a metà de terzo piano il susseguirsi di chiaro e vetro.

Entrando ci si trovava nel cortile. Dal cortile arriva un suono sommesso e la luce scendeva gli scalini fino a Soak. Il soffitto era a volta e il corridoio sgombro per buona parte davanti a lui. Bisognava percorrerlo per un lungo tratto prima di trovare degli imballaggi di cartone e legno. Soak si diresse verso quel punto, ogni tanto trovava degli scalini che doveva scendere o salire, guardando i mattoni cementati e un pensiero era diventato un tormento. Si era fermato, aspettando che quell’idea se ne andasse.

Cercava di pensare ad altro. Il suo Irt era sempre stato la cosa che lo preoccupava di più, ma adesso era diverso. Neppure pensarci riusciva a distoglierlo da un’immagine che ritornava. Per cercare di rimediare a questo si era chiesto cosa fosse successo la notte precedente.

Era rimasto sulla spiaggia fino all’alba e aveva visto Sander.. Come avrebbe potuto continuare la vita ora, si chiese. Era una cosa inconcepibile che il numero dei membri non fosse quello prestabilito. Non era possibile semplicemente perché tutti avevano un compito. Aveva pensato.

Quello che vedeva adesso era un’immagine nella quale non si vedeva nulla, era senza un confine, completamente sfuocata. Di solito emergeva qualcosa dentro a questo spazio vuoto, ma quel giorno non accade.

Questo dipendeva dall’ordine ricevuto dal Dipartimento Supremo. La sua tranquillità era andata perduta.

Aveva dovuto fare un duro lavoro su se stesso per individuare quali erano gli elementi importanti e quali marginali. Entrambi formavano lo schema. C’era una cassa da imballaggio. Era diversa da quelle che aveva sempre trasportato. Si era mosso in avanti e si era staccata dalla parete. Camminava tra i soliti contenitori che conosceva. Con la strana cassa in mano.

Aveva passato una mano sulla superficie liscia. Con un dito aveva seguito la linea fino all’angolo. Era molto piccola rispetto alle altre. Il problema non era Sander o la piccola cassa che aveva trovato, ma il linguaggio, doveva fare un discorso, gli era sembrato di capire, ma in che modo visto che questo non gli era stato insegnato, essendo destinato ad altro, non alla parola.

E se avesse dovuto farlo come, visto che, non ricordava di avere mai fatto un vero discorso. Quasi volesse imparare ciò all’istante. Stava cercando di escogitare un sistema quando si trovò sopra gli scalini la figura di una missionaria davanti alla porta che dava sul cortile.

Araa sentiva un grande timore per quello che stava facendo. Per lei superare quella soglia aveva il significato di commettere un reato. Un reato che era tale, in quanto la sua disobbedienza era interiorizzata.

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Ora, doveva entrare. Lei si disse. Aveva disceso gli scalini senza più pensare. Non vi era più traccia del timore iniziale solo un senso di meraviglia per quel luogo che non aveva mai visto. Soak le disse “hai paura?”

“No, non credo.” Lei gli rispose.

La luce, che proveniva dall’interno e non in prossimità, disegnava un’ellissi lunga verso l’apice. Percorsa parte della strada dentro i cunicoli bisognava scegliere quale direzione prendere e poi ancora quale seguire e di seguito. Solo Soak sapeva come arrivare nella stanza che conteneva il suo Irt ma era titubante perché c’era lei.

Araa lo aveva seguito lungo tutto il percorso senza dire una parola. Era rimasta impressionata dal labirinto. “Non è possibile fare sempre lo stesso tragitto - Soak disse a Araa. - A volte alcuni tunnel sono chiusi o semplicemente oscurati. A volte però se ne aprono di nuovi o vengono come dire “riattivati” quelli vecchi. Sembra casuale. Casse che si erano dimenticate le si riconosce, si percorre poi altri tragitti e si trovano nuove casse, ma ti ripeto sembra casuale, che non dipenda da nulla, né dalla natura né dalla volontà di qualcuno. Ma non era mai successo che qualcuno rifacesse dal principale lo stesso giro”

Finalmente si trovarono in una stanza. Soak si era avvicinato ad una mensola metallica che correva lungo la parete. Prese una piccola striscia di materiale opaco e lo pose dentro la piccola scatola nera che aveva portato con sé. “Cos’è?” chiese Araa.

Questa scatola che ho trovato oggi tra le casse, disse piano Soak, deve essere la parte mancante.

In che senso la parte mancante” chiese lei.

“E’ un desiderio o un bisogno” rispose Soak “Il dato contestuale”

Araa capiva che parlava del suo Irt ma non capiva. Cosi Soak gli chiarì.

“Non è altro che un desiderio, io collezioni i desideri degli altri” disse.

“Ma non capisco ancora, cosa sono i desideri?”

Araa aveva ripetuto queste ultime parole nella sua mente, per lei cosi strane e lontane.

“I desideri sono dati contestuali, sono il contesto stesso, sono trasmissibili, si hanno già alla nascita, ma sono quasi sempre contestuali, e da questo punto ottimi dati storici, su cose e fatti”

Araa aveva sete, gli chiese a Soak cosa poteva succedere adesso? Soak rimase a guardare un bicchiere sospeso su una mensola. La piccola scatola scattò e registro automaticamente il desiderio di Araa. Araa, gli chiese Soak, hai ancora sete?

“Anch’io non riesco a capire il mio Irt. Se vuoi è quasi un gioco o meglio una cosa senza senso. Prendo un bicchiere pieno di acqua e lo rompo lasciandolo cadere a terra, poi conto le gocce d’acqua e le schegge ed arrivo sempre allo stesso numero.”

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Olom era entrato nella stanza dei sette libri rossi. Dalle finestre la luce arrivava sul pavimento lasciando un’impronta fluorescente. Illuminata perpendicolarmente la polvere vorticosamente si avvolgeva. Si era avvicinato al primo dei volumi, lo aveva fatto inclinare su un lato, e lo aveva sfilato.

Quando lo ebbe tra le mani guardò la copertina rossa liscia e rigida. I sette libri rossi non dovevano essere letti. Erano stati scritti in un linguaggio che non era comprensibile a nessuno della missione. Non era la prima volta che lo faceva, già altre volte aveva ricevuto quel comando, anche se quella volta era diverso.

Doveva strappare la prima pagina. Appoggiò il libro e lo aprì. Vi era una parola scritta più in alto e a caratteri diversi da quelli che seguivano. C’era scritto: “REPLIVA”. Riconobbe subito quei segni, erano gli stessi scritti sul cartello che s’incontrava venendo alla missione. Che tutti leggevano “Mondo” e la differenza c’era, ma non semplice.

Con il foglio in mano era andato fuori dalla stanza. Aveva percorso il lungo corridoio e si era trovato presso una porta.  Era entrato all'interno; alle pareti bianche seguiva un soffitto bianco e un pavimento altrettanto bianco.

Ad intervalli regolari comparivano sul muro alcuni simboli. Estrasse dalla tasca quello che era stato il suo Irt. Aveva lavorato a quella figura usando quelle che aveva imparato nella stanza dei segni. Aveva inserito il nuovo simbolo nella sequenza.

Adesso doveva andare con la pagina che aveva tolto in un altro luogo. Non sapeva quello che sarebbe avvenuto però pensava che non si potesse inserire quel segno con gli altri. Ne sarebbe scaturita una contraddizione.

Proprio per questo pensava che il suo lavoro era stato un fallimento. Aveva individuato semplicemente un errore. Quello che aveva fatto era stato semplicemente dare una definizione soddisfacente di errore appunto.

Lui sapeva che ve ne erano già diverse collegate e catalogate dentro i sette libri rossi. Quel suo sforzo, una volta che lo aveva compiuto gli era sembrato vano, e adesso si chiedeva se sostituendo la prima pagina strappata, non ne discendesse sette libri nuovi e diversi.

Sulle pareti continuavano a comparire ad intervalli regolari i simboli. Ad un certo punto era comparso il suo e ne rimase sorpreso. Gli sembrava così diverso da tutti gli altri. Brutto proprio perché così differente. Doveva andare a inserire nel congegno che la avrebbe trasformata in quella nuova. Quando riprese quella nuova si era accorto che era diventata bianca.

Rimase per un attimo inebetito poi aveva incominciato a muoversi velocemente, temeva che fosse successo qualcosa d’irreparabile e infatti quando arrivò nella stanza dei sette libri rossi  li aprì, uno dopo l’altro, e li aveva trovati completamente bianchi.

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Nebl aveva raggiunto la ruota dentata. Era il meccanismo più grande che vi fosse alla missione. Occupava l’intera stanza fino al soffitto alto oltre il piano fino a quello successivo. Era di un materiale scuro e liscio. Occorreva moltissimo tempo prima che girasse di una tacca. Per la maggior parte del tempo lei la osservava restare immobile. Pensava che non vi fosse un modo per fermarla. Per la sua forma deduceva che non si potesse rompere o distruggere in nessun modo.

Infatti, dava un’impressione di assoluta solidità, pesantezza e resistenza. Poggiava su di una base che era saldamente ancorata al suolo. La forza sembrava essere contenuta dai cilindri morbidamente sagomati sul resto del piedistallo. Questo rendeva irraggiungibile la ruota con una mano.

Il suo compito consisteva nel distinguere quello che era sogno e quello che era realtà. Da un frammento del passato la ruota recuperava il già vissuto.

Quello che lei osservava era o sogno o realtà. Le informazioni erano un’informazione contestuale. Contestuale significava porre continuamente dei punti bianchi in uno spazio nero. Secondo come erano posto si poteva risalire a quello che stava realmente succedendo o non accadendo affatto.

Questo avrebbero influenzato il futuro. Qualsiasi organismo ha bisogno d’informazioni contestuali, ne aveva avuto bisogno e ne avrà. Ma non sapeva di certo il futuro, ma non poteva essere un lavagna troppo pulita.

Casa potrebbe essere? E’ un sentimento, aveva pensato guardando nel microscopio. Si, deve essere stato proprio un sentimento. Ma mi appartiene? No. Esiste quindi. Reale, scrisse nel rapporto. Non proprio, è appartenuto ad un’altra persona ma era un sogno. Corresse nel rapporto. Passato, solo il ricordo biologico di un sentimento, concluse.

Era uscita dalla stanza pensando che il suo compito era finito. Tutto quello che si poteva inviare era stato mandato. La ruota non avrebbe più registrato altre informazioni eccetto l’ultima. E lei avrebbe voluto essere qualsiasi cosa eccetto il ricordo biologico di un sentimento.

Per un’infinità di scalini era scesa ai piedi dell’altissima parete. Davanti a lei c’era l’interruttore per regolare la luminosità. Lo aveva regolato ad un livello più basso e l’ombra delle piante si era fatta più scura e delle foglie non si scorgevano più i nitidi contorni. Anche sul fusto era caduta una linea che scivolava da un lato così da renderlo ancora più esile. Da sempre era stata lei a custodire quel luogo. Era come se un suo sogno si fosse materializzato. E come appunto in un sogno vagava tra le piante. L’ordine del dipartimento Supremo parlava di “foglia di limone”. Lei non sapeva cosa fosse un limone però intuiva che quel nome doveva riferirsi agli alberi che erano cresciuti in quel luogo. Aveva allungato una mano per staccare quella sottile foglia verde e aveva sentito una verità nascosta farsi strada verso di lei. Come nel laboratorio aveva sentito un mistero svelarsi tra le sue dita.

Quello doveva essere l’ultimo frammento da analizzare. Non toccava a lei, questo compito e i dati andavano inviati direttamente. Quando era tornata in laboratorio, e aveva messo la foglia nella ruota dentata, tutto era immobile.

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I missionari, tutti i missionari, Araa, Soak, Nebl, Olom ed altri erano saliti sulla cima della collina verde  avevano teso le mani, e avevano ripetuto quattro lettere A, O, G, R. Le lettere corrispondevano ad un nome, un nome che non avevano mai sentito e era inesistente nel loro mondo. Le lettere erano presenti nel loro dizionario ma non v’era questa parola. Non era mai stata usata, e parliamo di un fatto che corrisponde a qualcosa, che si deve ritenere corrispondesse a Sander e al numero invariabile. Dei missionari, di Repliva, di questo chiedevano conto sulla collina e lo facevano usando lettere esistenti, incapaci di pronunciare la parola. Alla scomparsa di Sander sulla spiaggia, era venuta a mancare una parola, lo aveva udito pronunciare le lettere se ne erano appropriati, ma non di quella parola che mancata portata via con Sander. Se Sander era scomparso loro si presentavano invano e ormai rasseganti alla perdita che era più evidente, deludente e profonda ed era di una impronunciabile parola.

 

 

“Penso che l’abbia già trovata da quando e diventato cosciente di esistere.” disse Sander.

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PUBBLICABILE O NON PUBBLICABILE, GIA’ ME NE PENTO E LO LASCIO QUI

LO STESSO, LE ESAGERAZIONI POSSO ESSERE FRAINTESE MA SONO SOLO

DOVUTE AD UNA ESAGERAZIONE DELL’IMMAGINAZIONE. I FATTI E LE

VICENDE SONO INTERAMENTE FANTASTICHE, NE VOGLIONO ASSOMIGLIARE

AL REALE.

Domenico Merli

         amultimediarte@email.it

 

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