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ERN

 

L’uomo si era alzato in piedi e guardava davanti a sé la baracca. Tra le assi di legno scuro, schiodate in diversi punti, si intravedeva la paglia sudicia su cui le galline depositavano le uova. L’erba, verde chiaro con le punte ingiallite, era cresciuta fino al ginocchio. L’acqua scorreva piano, al centro la corrente sembrava compatta e pura come il vetro fuso, mentre sulle sponde era arricciata e delle collane di schiuma si spezzavano e sventolavano come bandiere al vento. Un pesce emerse boccheggiando.

 Dalla strada giungeva il grido dei ragazzi all’uscita dalla scuola. Era alto e portava con sé la giovinezza e il suo coraggio. Quel coraggio disarmante e ingenuo lo spaventava. Temeva la gente che passeggiando sulla strada costeggiava il fiume. Lo inquietavano le loro case che scorgevano guardando verso la città. Il terrapieno era alto, scalato da troppi stretti scalini ripidi verso la strada.

Un cane era uscito dalla cuccia; con una corsa lenta e distesa, che gli faceva salire e scendere il dorso come stesse saltellando allegramente, aveva percorso la diagonale del quadrato, uno spiazzo di cemento sporco dietro il quale c’era una casetta di legno in cui si riparava dalle intemperie. Era una scatola di assi, ormai scollate. La rete metallica chiudeva una piccola ara di terra nuda e polverosa.

Dentro degli uccelli domestici si affannavano a raspare il suolo in cerca di un verme. I tacchini si fermavano e guardavano sospettosi le acque del fiume che trasportavano legni, barattoli di plastica e cartacce. Il loro collo era osceno così rosso, con la carne molle e cadente; sussultavano a sorpresa con tutto il corpo quando deglutivano, cosa che gli faceva spalancare gli occhi vitrei e vuoti.

C’erano anche le galline che meste, ispezionavano tutta la superficie a loro disposizione e si muovevano in modo meccanico, beccando e ribeccando sempre allo stesso modo.

Il cane, le galline, i tacchini e le oche, che sembravano ridere sguaiatamente, erano tutti di un signore che si chiamava Ern. Invece, l’uomo che si era levato sulle gambe e che camminava all’aperto aveva nome Sal.

Sal viveva in una vecchia automobile abbandonata lungo il fiume in prossimità del ponte che, sorretto da grandi arcate, affondava i suoi piloni sicuri nell’acqua che scorreva veloce e sempre uguale.

        

Durante una giornata di pioggia era stato tutto il giorno chiuso nella macchina. Non aveva altro da fare che ripensare, come se rispolverasse alle sue poche cose. Prima aveva pensato alla pioggia, la quantità d’acqua contenuta sul pianeta lo stupiva. Come era stato possibile che quando le stelle si erano raffreddate, da un massa di materia abbrustolita e incandescente, si fosse formata una cosa tanto meravigliosa e diversa da tutte le altre come l’acqua.

Se c’era acqua c’era vita. Questa era la sua semplice teoria. Certo che la terra e l’acqua sono due cose diversissime, diceva tra sé; le prime nuvole si erano formate come la nebbia e si erano gonfiate a mo’ di mongolfiere e una volta nel cielo avessero fatto piovere una specie di diluvio universale. No. Così guardava le nuvole.

I suoi occhi si erano mossi senza trovare nulla su cui fissarsi. Alti palazzi di cemento, immobili e grigi, pesavano sulla terra come peccati da espiare.

Le gocce di pioggia avevano fatto cerchi sulla superficie della corrente. Il muro del terrapieno era gonfio di umidità e il muschio vi era cresciuto sopra, formando minuscoli cespugli, come borse sotto gli occhi di chi non ha dormito.

Poteva guardare le sue gambe con le ginocchia che sporgevano nei calzoni, o guardare il recinto degli animali deserto perché si erano riparati nel capanno.

Di chi era stata quella macchina? Adesso era sua perché no? La legge. Era stata di un uomo o di una donna? Di entrambi, forse.

Aveva fatto scattare una molla con un colpo secco delle dita e il sedile si era reclinato. Qualcuno aveva lasciato una rivista del National Geografic nel cassetto porta oggetti davanti al sedile del passeggero. Lo sportello si era aperto verso il basso con un colpo secco che lo aveva fatto vibrare. Dentro c’era la rivista con la foto di un babbuino che guardava fiero la sua terra: la savana africana. Colpiva tanta fierezza in un animale, impressionava tanta profondità nel contemplare l’infinito di sabbia e arbusti.

Forse pensava soltanto che poteva stare fermo, che non doveva scappare né inseguire. Si sentiva sicuro. Lui voleva pensare che provasse una composta gioia di esistere. Aveva dovuto dominare qualcosa per sopravvivere, questo gli dava fierezza.

La data sulla copertina era stata scolorita dal tempo. Sognare, questo voleva, lui che amava sognare guardando i libri. L’unico modo per sognare è amare, o leggere o guardare o desiderare. Le belle foto patinate, che chiudono in una mano un immenso lago, e si divertiva a contemplare il nostro pianeta visto dallo spazio, colorato di bianco e di blu, diventare delle dimensioni di una fotografia, e si chiedeva con un po' di malizia, se si può fotografare qualcosa di più. Sì.

         Dentro il cruscotto c’era un numero di telefono accartocciato. Gli amanti conoscono i loro numeri di telefono a memoria. Perché frugava nella vita degli altri? Si rigirava tra le dita la fotografia sovraesposta di una ragazza che sorrideva.

Sorrideva guardando in macchina, seduta sugli scalini di un palazzo, sullo sfondo correva la strada segnata da strisce di vernice bianca e gialla. Non si capiva bene, l’immagine tagliava i soggetti e le finestre dei palazzi. Gli sembrava che guardasse proprio lui, non era possibile che si conoscessero, ma dopo aver tenuto tra le mani il suo ritratto per tutta la mattina e il pomeriggio, chiuso dentro l’autovettura con la pioggia che cadeva incessante, aveva pensato quale amore l’avesse fatta diventare così bella.

 

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C’era una scatola era da scarpe fatta di cartone da pacchi con una boccetta di vetro. Il profumo era finito, eppure lui aveva svitato lo spruzzino e aveva annusato l’impercettibile residuo della fragranza. Era stato davvero tutto inutile. L’unica cosa che sembrava ricordare del suo passato era quel ponte che aveva davanti in quel preciso momento. Non era rimasto niente dei giorni che aveva vissuto. Quasi fosse una domanda a cui non c’era risposta continuava a contemplare quella costruzione di ferro e mattoni cercando là quella risposta. Aveva cercato di scoprire un segreto, in grado di spiegare tutta la sua vita, troppo a lungo e aveva dimenticato, amnesia. Si era avvicinato anche adesso, ma senza afferrarlo. Si era allontanato ancora di più dalla verità. Si era ritrovato con le dita bagnate da un profumo che nessuno poteva più sentire.

Le lucertole spingevano lo sguardo in un immenso universo verde. Le ali degli uccelli dal becco lungo, giravano l’aria in solidi cuscini, su cui giacevano istanti lunghi come profonde riflessioni. Solo, al di là del ponte c’era un’automobile.

Il primo gradino del ponte luccicava, il secondo era cianotico e tossiva, scuro, il terzo misurava le mosche e le zanzare lì parcheggiate. Il quinto chiamava il settimo amore.

Quella era una notte con in cielo tante stelle, la luce rischiarava il volto di Sal. Perché lo cercava il Mondo? In fondo, la sua amnesia lo lasciava fuori da qualunque discorso. Ma il mondo era cambia e forse lui serviva ancora, quando lo si è capito è già troppo tardi, ma si riparte tutti da zero, però o lui quantomeno. Aveva pensato e sofferto di pensare. Guardava la sabbia scorrere sotto i piloni del ponte, diventare di un argento scintillante mentre i verdi ciuffi e le morbide piante erano il velluto di un guanto. Camminare sul ponte era dolce in quella sera d’inverno. C’era aria di sole che saliva alla luna dei miraggi e dei miracoli. Lo attendevano due agenti del Mondo nell’automobile che riusciva a scorgere alla fine del ponte.

“La stavamo aspettando  - disse uno dei due agenti del Mondo. - ben arrivato in città.” Infatti al di là del ponte iniziava la città.

“Grazie” rispose Sal. Questa era quindi la temibile milizia: due giovani, uno calvo e l’altro con le spalle larghe. L’auto aveva il motore acceso. Dal tubo di scappamento usciva un fumo chiaro e pesante che prima di salire e disperdersi nella nebbia, andava a toccare il cemento umido e scuro. Dal porto arrivava il fischio di una sirena, Sal immaginava la carena solcare l’oscurità, gli sembrava una preghiera per chiedere il permesso di esplorare, gli sembrava un addio per chi resta.

E lui si sentiva uno di quelli che camminavano svelti sul marciapiede, solo che stava andando in macchina  al commissariato. Dal finestrino della macchina aveva visto due signori incontrarsi, chiusi nei loro cappotti, stringersi le mani. Quella era una convenzione. Era un modo per rendere più difficile e più semplice il significato e il segno; o equivalenza, forse solo una concordanza possibile.

“Fermatevi!, fermatevi....per favore..” Lui è Sal ma non lo ricorda e ha paura.

Quello calvo si era girato e aveva ingoiato un cucchiaio di salsa di pomodoro che aveva preso da una scatoletta con il coperchio mezzo alzato. A Sal gli era venuta voglia di tentare di scappare e rifugiarsi nel primo posto sicuro. Erano scesi tutti dall’automobile e si erano messi a camminare. “La gente gira con le fiaccole accese anche adesso che è quasi giorno.” Si erano diretti dove ardeva il falò. Era un buco di marmo dal disegno circolare. L’odore del fuoco era quello del catrame. Impregnava l’aria che quasi non si respirava con i suoi fumi scuri. Dalle case qualcuno portava mobili da ardere, gli appartamenti erano in rovina.

La gente intorno al falò era diventata una folla, l’incendio aveva tutta l’aria di diventare pericoloso, così arrivarono i pompieri. “No” disse Sal ad un uomo in uniforme rossa “non spari il getto d’acqua sulla fiamma, ma sulla casa, sopra a quelle scritte.” Le scritte sbiadirono e scomparvero e quando questo era avvenuto le persone si erano calmate e si dispersero. L’incendio si spense.

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Il commissariato era un lungo edificio, alto quatto piani; sul tetto avevano fatto il nido i piccioni. La gente entrava e usciva da una grande porta che chiudeva con un arco di mattoni.

Gli agenti avevano arrestato una ragazza. Lei piangeva ed era tutta inondata dalla schiuma degli estintori e la sua pelle era bianca, completamente bianca, sale del mare, pura salsedine.

 “Brucia più del fuoco questo freddo” diceva lei.

“No.” Diceva lei

“Io, lo sai, non posso vivere o bruciare, sono ininfiammabile. Né bianco né nero. Sì.” Diceva lei.

 

“Ecco, venga, venga in quest’ufficio” gli aveva detto a Sal un agente con la divisa blu. Grossi tubi scintillanti correvano lungo il soffitto, cavi, gas, acqua. Nascosti dietro Mondo c’erano tubi, cavi, tubi dell’acqua. Un contesto artificiale. No. Un mondo nuovo. Eventi, discorsi fatti e ascoltati, gesti e pensieri; sembrava essere un angolo.

Aveva l’angolo la proprietà di fare incontrare tre linee, due di definire una superficie. Una di disporre del tempo, del suo tempo. Quello che non riusciva a comprendere era perché proprio adesso stava succedendo quello che stava accadendo. Secondo i suoi calcoli l’adesso non esisteva per lui.

E non nel senso che non dovesse essere la conseguenza di altri avvenimenti già avvenuti. Il momento fosse un istante come un altro. No. Eppure doveva essere differente dagli altri che lo avevano preceduto e che lo avrebbero seguito. Che c’entrava lui?

Doveva appunto essere “adesso” che succedeva tutte le conseguenze delle cause, ma non era successo nulla. Una parte di lui che avrebbe dovuto non esserci. Ma c’era ed era questo quesito che rivelava la sua vera natura. Il vero interesse per lui del Mondo. Una parte marginale era diventata la sua faccia. Non importava fosse dovuta alla febbre, alla peste o al vaiolo; che fosse scambiata per un errore o altro, era diventata il suo viso. Sì.

Lui avrebbe continuato a essere ciò che era; parte del mistero che andava svelato. In divenire le indagini non sarebbero possibili. Così aveva motivo di chiedersi perché proprio a lui visto che riguardo all’enigma era conseguenza minima. Se era all’oscuro poteva gettare un po' di luce. Se avesse già saputo quello che stava succedendo allora non avrebbe potuto scoprire niente. No, sì.

Prese il foglio e ripassò a mente quello che c’era scritto. Doveva cercare di dare un senso a quello che leggeva ma non ci riusciva. Era una storia, semplice, banale, nient’altro.

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 “Ben arrivato Sal, come sta, bene...immagino bene. – poi l’ispettore continuò. - Ha visto quello che sta succedendo in città? Non vuole rispondere...non importa....non vuole sedersi.. no.. stia in piedi, vuole una sigaretta, fuma? Sì?.. sì...guardi fuori dalla finestra; ha visto cosa sta succedendo alla nostra piccola città?

Non si fermano mai, di giorno e di notte vanno verso i fuochi e bruciano qualcosa. E una volta che trovano qualcosa lo trasportano fino dentro il fuoco per incendiarlo e distruggerlo.

Tutto questo è iniziato quando hanno trovato incisi sopra dei segni.. Poi hanno fatto i primi incendi per bruciare i segni.. ma ovviamente i segni tornavano e li bruciavano e cosi via. Qualcuno fa i segni e qualcuno brucia e così via mentre si diffondeva sempre di più la consuetudine dell’incendio.

Entrambi questi due fatti sono collegati, ma non sappiamo in quale modo. Come le dicevo erano pochi all’inizio e adesso sono tutti coinvolti in questa storia, come dire contagiati.

Noi siamo riusciti a recuperarne qualcuno, con sforzo che non esito a definire estremo, perché non se ne vogliono liberare anzi li difendono con la forza; disegnano i segni che ci sono sopra sui muri delle case, sulle pareti delle stanze. Non sappiamo il significato di queste iscrizioni. E lei ci deve aiutare. Ha inteso? Bene.. non sono dei segni che i sassi portano addosso per vetustà, incrostazioni e scheggiature, hanno un senso. Al commissariato non sappiamo cosa fare, abbiamo cercato di interrogare tutti quanti, ma sembrano aver perso la parola, i lettori e gli incendiari non smettono di fare quello che fanno qualunque cosa accada.”

Perché fate questo? Si chiedeva il commissario semplicemente. Ma nessuno faceva del male, a leggere un sasso, e non poteva essere arrestato.

Lui e i suoi agenti vagavano smarriti tra folla e soprattutto, erano soli, senza più altro da fare che diventare anche loro dei lettori di pietre. E lo erano già. Non volevano ammetterlo. Cercavano una confessione e Sal lo sapeva e aveva paura.

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