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Sal sentiva il peso della situazione, si stava facendo sera ed era stanco. Prese dalla tasca dei calzoni il foglietto “Il ragazzo aveva la schiena appoggiata al tronco dell’albero, seduto sul prato dove l’erba cresceva alta e verde e aveva le gambe piegate, guardava fisso davanti a sé le ultime colline in lontananza.” Sal lesse la frase poi si fermò. Cercava qualcosa nella stanza e si era accorto che cercava il commissario.

“Su, continui a leggere non abbia timore. Ma mi raccomando cerchi di dare senso a quello che c’è scritto.” Sal sentiva che le parole arrivavano a lui da una distanza lontanissima e non ne sentiva il peso quasi fossero completamente vuote.

 “Sentiva il rumore di biciclette e di voci di ragazzi che diventavano più forti con il loro avvicinarsi; i campanelli sul manubrio suonavano in modo sempre più acuto e isterico, le ruote che mordevano la polvere e i sassi avevano un timbro cupo, baritonale, come fossero una grossa budella contorta e sbattuta.  Anche se fingeva di non vederli, tre ragazzi stavano davanti a lui seduti sui sellini delle loro biciclette e suonavano all’impazzata i campanelli.” Ci fu una pausa, uno stacco, una forza nuova, un altrove.

 “A quel punto, quando i tre ragazzi si chinarono sul manubrio avvicinandoci il viso e socchiudendo gli occhi, mentre spingevano sui pedali a scatti sempre più forte per investirlo, allora il ragazzo si era alzato ed era corso via giù per la discesa.”

“E’ finita? Le sto chiedendo se è finita.” Disse il commissario. Dico.. questa storia..

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 “Si sentiva leggero come se il suo corpo non esistesse più e al suo posto vi fosse un ruscello d’acqua che correva a valle” Sal non ne poteva più. Aveva piegato la testa verso le gambe.

“Allora non è finita, andiamo avanti...”

“Si era fermato dove c’era una piccola strada che costeggiava il fiume, anche i tre ragazzi stavano arrivando, respirava affannosamente per recuperare il respiro con le braccia appoggiate alle ginocchia e la testa reclinata all’indietro, aveva guardato i suoi scarponcini con le calze arrotolate sopra e vide che erano sporchi d’erba” E’ finita? Mi dica se è finita, per favore. Ma Sal era esausto, non rispose.

Per il percorso di gara avevano usato un corto bastone nodoso come minuscolo aratro e il solco disegnava sulla terra sabbiosa un serpente che terminava in una tozza buca di terra scavata con il legno come pala, il ragazzo aveva sbagliato un colpo clamorosamente e allora gli altri lo urtarono coi gomiti. (Le biglie, giocavano a biglie) - Andiamo a tirare sassi nel fiume.-”

“Continui” disse il commissario.

 “Era rimasto da solo; gli altri in bicicletta se ne erano già andati dietro la curva dove in riva al fiume si trovano i sassi più belli, contemplava l’azzurro del cielo e ne misurava col pensiero le dimensioni, ascoltava la voce del fiume e delle foglie. Quando era arrivato aveva visto che gli altri stavano tirando sassi, facendoli rimbalzare più volte sullo specchio d’acqua, il suo arrivo non era stato nemmeno notato e questo lo aveva irritato così aveva deciso di andare a pescare rane nel canale lì vicino.

Per pescare usava una canna fatta con un bastone liscio e affusolato con legato ad una estremità un filo che aveva come amo un fil di ferro ricurvo e come esca una mollica di pane, gli bastava buttare la lenza nell’acqua verdastra e stagnante del canale perché le rane abboccassero e poi le metteva in una borsa di plastica per la spesa che portava con sé proprio.

Le rane saltavano sulla parete del sacchetto e poi scivolavano sul fondo dove gonfiavano le guance trasparenti, il ragazzo si era accorto che qualcosa si muoveva nell’acqua, era una massa scura molto grande, il pesce gatto aveva salutato emergendo con la grossa testa piatta e mostrando i suoi lunghi baffi, si muoveva con lentezza nell’acqua bassa e melmosa, il ragazzo aveva pensato fosse malato. Lo guardava come fosse un vecchio signore che ha perso il cappello portato via dal vento, gli altri ragazzi quando lo avevano visto avevano urlato - il mostro - e poi sollevarono pesanti bastoni e lo colpirono, tramortendolo prima e uccidendolo poi con altre bastonate, il ragazzo aveva abbandonato le rane libere di andarsene ed era tornato al suo albero.”

E’ finita’ chiese il commissario.

 “No, no.”

“Ma sì. Sì, ha capito!”

Che cosa è questa storia? Disse il commissario, non riesce a capirlo? Eppure è sua.

Sal si era fermato esausto per la strada, era uscito dal commissariato.

 

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Il commissario gli aveva mostrato un segno, e voleva che lui lo capisse. Voleva che Sal gli desse la chiava per codificare quel segno. Si sentiva morire, pensava che sarebbe mancato quella notte, quando per le strade non c’era nessuno, e aveva paura per la sua anima. Non importava quanti vestiti avesse addosso, lui sentiva nelle ossa i brividi e batteva i denti nel sonno, l’aria umida lo attraversava. Sognava di fare il bagno in un laghetto che improvvisamente ghiacciava e lo imprigionava. Era il freddo. Era bruciare.

 

La notte era passata. Aprì piano le palpebre che scoprirono l’iride la quale si contrasse al primo raggio di luce bianca del sole, vedeva il primo cielo del mattino splendere sopra ad ogni cosa più che mai colorato di una tinta assolutamente pura, fredda e intensa. Le nuvole venavano il cielo come rami di ciliegio nel marmo rosa del castello della regina. Erano lucide e rilucenti, brillanti come neve ghiacciata e trasportate come polvere. Aveva sbattuto le palpebre sul fiume vermiglio che scorreva ai suoi piedi denso e profumato come il succo di un’arancia troppo maturata che tagliata in due metà, identiche eppure irrimediabilmente divise, goccia di porpora e cioccolato fuso. Lacrime invisibili erano state versate dalla notte sul prato, il letto sul quale aveva dormito un sonno popolato da pesci tropicali grandi come balene dipinte con i colori dell’arcobaleno, aveva guardato la pagina di un giornale che era stata la sua coperta, ma non sapeva leggere. Amnesia.

Era diventato difficile aspettare in coda per un piatto caldo di minestra. D’inverno si potevano vedere i vapori delle enormi pignatte messe sul fuoco, salire dalla cucina della mensa per i poveri. Si consolava guardano la gente che camminava sui marciapiedi e in mezzo alla piazza; osservava il volto di ognuno con attenzione e ammirazione per quei lineamenti che lo seducevano e rimandavano la sua immaginazione alla bellezza di quelle forme. La solitudine gli pesava sul cuore come un grosso velo nero, vagava senza una meta alla ricerca di un significato, banalmente si poteva presentare ed essere la cosa in sé, una banalità. Una formalità. Eppure non aveva incontrato nessun significato plausibile. Tutto gli sembrava bellissimo, forma di puro spirito ma inavvicinabile.

Salendo una stretta e ripida scala di bianchi e spugnosi scalini, i grossi pori anneriti dalle impurità, si era ritrovato in città.

 “Tenga!” aveva detto la ragazza porgendogli un foglio di carta rettangolare con delle grosse scritte in celeste.

“Cosa c’è scritto?” aveva chiesto Sal con la voce impastata quasi non avesse mai parlato e aveva aggiunto “io non so leggere.”

“E’ per tutti” la ragazza disse.

Di fianco a lei c’era un bidone sopra ad un carretto, dal bordo del coperchio usciva un profumo di caffè. Lei gliene offrì una tazza.

“Sta cercando un lavoro?” Lei gli chiese.

Lui aveva risposto, “Sì”.

Perché non viene al corso?” La ragazza gli chiese

“Il corso?” Lo disse socchiudendo gli occhi in rughe profonde.

“Il corso nel sottosuolo.”

“No..” le disse Sal.

“Arrivederci!” La ragazza gli disse. Sal sentiva una rabbia sorda che dopo migliaia di giorni passati allo sbando, nella sofferenza, era diventato il rimorso di essere nato; rimorso di non aver vissuto. Il ricordo mormorò tra sé...

Sal ritornò sui suo passi e disse: “Volevo dire sì, per il sottosuolo..”

“Ora possiamo andare...” concluse la ragazza.

 

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Da una porta scardinata di una capanna, nascosta dietro una grossa quercia, si scendeva nel sottosuolo da una scala scavata nella terra e nella roccia.  Lui la seguiva ma l’oscurità si era fatta totale e Sal si era fermato. “Non vedo nulla” disse rivolto a lei che gli rispose “ricorda, non importa il buio, ricorda, tu in tutti questi anni ha sempre vissuto vicino ad un ponte?” Sal allora raccontò:

“All’inizio non me ne ero accorto che qualcosa mi era successa; solo adesso ricordo che da piccolo giocavo con la palla su un ponte di un’altra città, in un altro paese, mi sembra che nella mia nazione ci fossi solo io, come sono diversi i ricordi dai fatti ricordati, quella è stata la prima volta che mi sono trovato su un ponte, poi la mia palla è passata tra le arcate ed è caduta giù in acqua. E come se fossi caduto anch’io in un vortice, una vertigine della mente che ha perso il suo equilibrio. Passai alcuni anni tranquilli, guardavo i ponti da lontano senza dargli importanza, ma poi mi accorsi che sceglievo sempre appartamenti nei pressi di un fiume con un ponte. Ho iniziato a passare il pomeriggio guardando il ponte quello dove mi avete trovato e mi sono reso conto che non mi importava null’altro che restare la sotto.”

“E’ pronto?” disse una voce

“Sì” rispose la ragazza.

Sal si ritrovò tra le mani un sasso. Lo leggeva, parte era sé e parte era altro il senso di quel segno.

 “La strada verso la baracca era sporca e dai bidoni dell’immondizia saliva il puzzo degli avanzi. I gatti rantolavano e miagolavano saltando da un sacchetto all’altro, mentre i topi incominciavano dal basso. Le persone sembravano tutte ingrassate e stanche, più robuste e mostruosamente grandi. Senza riuscire più a controllarmi... mi ritrovai solo e povero e tutto ebbe inizio” Cosi all’incirca si espresse la confessione di Sal.

Per un attimo gli sembrò di rivedere il segno che il commissario gli aveva mostrato e chiesto di capire, ma sprofondo nel buio del sottosuolo nel sonno. Quando si svegliò era a terra sul gretto del fiume vicino al ponte.

 

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Quando si era svegliato aveva visto passare il cane di Ern. Ricordo che Ern aveva un capanna lì vicino, una recinzione e degli animali, uccelli, galline e tacchini. Il cane di Ern era andato verso la vetrina di un negozio Un cerchio di luce dal vetro arrivato ad un certo punto tornava indietro, chiudeva comunque una finestra da cui veniva un odore di fritto.

Doveva cercare Ern ma non sapeva dove fosse.

La luce viola correva dritta come un bastone e poi risaliva come uno zampillo d’acqua, vicino un’altra andava su e giù per la punta di una freccia. Le strade scendevano verso la pianura una marea di luci di tutti i colori. Un disordinato arcobaleno caduto a terra.

“Cosa c’è scritto qui?” vedendo un cartello luminoso “Dove è Ern?”

Il quel momento un uomo si era fermato davanti a Sal e gli chiese “Cosa c’è? Non sta bene?”

“Sto cercando Ern..” aveva risposto Sal.

“No?”

E Sal sentiva tutto intorno questa domanda retorica la sua inadeguatezza.

“Sì” rispose

Distese le lunghe dita nell’aria. Il suo corpo era rimasto fermo e immobile con lo sguardo perso. Quanto gli sarebbe costata la verità? Doveva aspettare solo qualche minuto ed Ern sarebbe comparso, cinque minuti o meglio due minuti ed Ern sarebbe comparso.

 “Salve” gli disse una voce

“Ern?” chiese frastornato Sal.

“Sì”

 

“Devo dare l’acqua alle piante, mi faccia compagnia.” Erano arrivati a metà di un corridoio. Disse Ern.

“Questo è dunque il paradiso” disse Sal

“Non so, non capisco a cosa si riferisca.”disse Ern

“E’ una lunga storia” Rispose Sal.

 “Non vuole Correggerla?”

“Si porrebbe cambiare ciò che accaduto?” si chiese Sal.

“Una torta in faccia può far ridere. La torta si solleva dal tavolo e l’uomo si tende spaventato per schivarla ma.. Di solito qualcuno sopraffa qualcun altro. Di solito queste cose non succedono o se vuole non appaiono improvvisamente le piante, le donne, e le torte.”

“Sì, Ern”

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Ern è la storia di uno sdoppiamento, tra l’altro è il primo racconto che ho scritto nel 1994 e ne sono emotivamente legato. Tra un significato troppo profondo, infine, e un segno troppo grande per essere percorso. Qui un omaggio modesto alla luna che spero di conoscere meglio e che penso sarà importante, importantissima domani. E’ un racconto fantastico, senza riferimenti voluti alla realtà.

Domenico Merli

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