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IL VUOTO

 

 

 

 

 

 

Efu era presso l’ala della casa, quella che la mamma gli aveva chiesto con più apprensione di visitare con attenzione, dove stare più attento a giocare, il bambino era presso la vista panoramica, era sicuramente un cielo tanto grande e azzurro benevolo, doveva mancare poco a questo per essere perfetto, lui era esaltato o meglio beato nella sua tutta sportiva, sdraiato sul terrazzo. Efu era solo, c’era il baby-sitter elettronico, un piccolo robot che si muoveva autonomamente, seguiva il bambino indirizzandolo, consigliandolo, cercando di evitare pericoli, a scuola, sul bus e lo consolava addirittura grazie ad un programma aveva delle frasi, dei suoni appropriati o che anche funzionavano per il suo apprendimento, senza essere una persona indirettamente era una figura “umana” e senza avere una coscienza il robot sembrava che lì “zona off-limits” entrasse in conflitto con sé con la situazione dell’apprensività materna e libertà infantile. 

Per quanto questo robot detto Plissit era modesto se cosi s’intende l’incapacità a risolvere questo tipo di problemi, trarre le conclusioni appropriata tra Efu e sua madre, tra la possibilità di concedere ai bambini in generale una possibilità o di precludere qualunque situazione pericolosa, di definire il ruolo dei genitori nella crescita e il margine, si presume crescente, delle macchine in questo, il decidere cosi via dell’adolescenza e di Efu, e quando Efu lo sarebbe stato, lui un giocattolo sarebbe stato sostituito come già preventivato, da uno più evoluto. Efu se ne stava beato sul pavimento all’aperto sotto un modesto solo e un muro azzurro da vertigine, non pensava che lontanamente al fatto che vi fosse su tutto ciò un avvertimento, un non-fare implicito nella situazione, come non tagliare la coda alle lucertole ma questo non pensare non tagliarle le code delle lucertole dove portava? era una libertà una via diversa del pensiero che giungeva dalla subitanea rimozione, lui poteva pensare che le cose semplici erano semplici, che anche Plissit lo fosse che lui lo era, che tutti lo erano.

In una qualche misura, lo scopriva e ne gioiva della scoperta: Eureka posso spingermi un poco più in là arrivando a intendere qualcosa che non conosco. Per curiosità posso osservare Plissit dentro, anche se ho idea non vi sia un nulla che non sia nel manuale della mia classe di scuole, schede, sistemi di alimentazione, memorie se solo potessi convincerlo a farmi avvicinare a lui, convincerlo ad aprirmi la grata frontale, sembra che vibri sembra Plissit che sia nervoso! Non potresti venire qua vicino? Chiese il bambino al robot stimando questi sessanta centimetri e la possibilità di toccarlo cosa che lo avrebbe immobilizzato perché era vietato a questa classe di robot domestici il contatto, perché i precedenti facendo la “lotta” conseguente al fatto che i bambini lo “attaccavano” avevano prodotto lesioni anche gravi,.

NO! Fu la risposta un po’ irosa di Plissit che si trovava a dispetto di tutto in zona off-limits e voleva solo eseguire gli ordini della mamma: “I bambini lì fuori! dietro la casa è terribile, va portalo ma fa’ attenzione!” No, affermò Plissit, “Efu non deve toccar(mi)”, non li si voleva umanizzare troppo con il pronome personale. Hai paura che mi faccia del male? Gli chiese poco convinto Efu un poco si chiedeva se veramente un robot potesse essere apprensivo, per qualche strana ragione scegliere una volta qualcosa, anche assurda come lasciarsi aprire lo sportello frontale magari se minacciato. In modo molto leggero prese una paletta da giardino e un po’ simulando un rimprovero lo puntò verso Plissit e gli disse: “Vieni qua e aprimi lo sportello frontale, capito!” Non era in dubbio che questi si rifiutasse ma forse, qualcosa nella sua memoria, era entrato in allarme. Efu trovava divertente che Plissit adesso vibrava per davvero, un tremito vero e proprio anche se contenuto, doveva trattarsi delle batterie atomiche, di un qualunque difetto di produzione, ma la paletta da giardino poteva servire non per distruggere il robot, Efu disse: “Se non ti avvicini mi taglio una gamba con la paletta da giardino!” lo disse in modo involontario e ridicolo come se tra due uomini armati a duello, poiché uno si rifiutava di colpire l’altro si metteva a colpirsi da sé.

 

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Ma questo stranamente provocò la reazione di Plissit, contrariato contro la sua programmazione, avanzò stupendo tanto Efu che si trovò il robot a pochi centimetri, tremante, con il numero della mamma visualizzato sulla fronte. Era assurdo che si comportasse cosi per una minaccia e minacciava a sua volta di chiamare la mamma: “apri il vano?” lo disse Efu intontito e più domanda che comando, il desiderio era stato esaudito. Nel frattempo era partita la telefonata registrata: “Emergenza robot infantile domestico”. La mamma arrivò e rimase perplessa vedendo Efu anche lui perplesso. Plissit si era spento, non se ne capiva il motivo, anche quello del guasto era remoto, non c’era altra spiegazione che in qualche modo aveva voluto,  rompersi, disattivarsi, lo sportello era aperto e dentro si vedevano i circuiti per la verità molto semplice se si vuole per la curiosità di Efu, Efu era salvo poteva dire che disattivandosi Plissit aveva aperto lo sportello, le cose insomma potevano sembrare molto semplice, ma non per Efu che pensava che fosse strano questo, molto strano …

“Ma non c’è niente di strano!” disse la madre a Efu che si sentì sminuito nella sua fantasia che in fondo aveva fatto qualcosa, comunque sia qualcosa. “Questo è un grosso guaio, però e tu devi lasciarmi cercare un centro di riparazioni, che vuoi che sia di certo sono cose che capitano a tutti di avere …” e qui s’interruppe. Lo allontanò con una scusa e si chiese continuando se esistessero robot che aggiustassero robot, “non vi pentirete mai, durerà in eterno” era tutto cosi indistruttibile ormai che avrebbe fatto una figuraccia a cercare via Rete un robot di assistenza robot questo mondo della tecnologia! “La bella speranza” era sempre stata considerata detta, perfetta e buona, la tecnologia, pouf! Prese un bicchiere d’acqua e quasi gli andò di traverso, come tutto era fragile, accese il monitor.

 

 

 

 

 

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Inviò telepaticamente al congegno il messaggio “Assistenza robot infantili, riparazione” e stette in attesa. Su quel canale era trasmesso il programma “Sorriso: ciò è umano!” Per distinguerlo dall’assenza di sorriso negli altri esseri animali e nel fatto che il sorriso degli androidi era molto stereotipato e facilmente riconoscibile come falso.  (come tra l’altro dicesi nei pazzi). L’attesa si protraeva e l’attenzione quasi senza volere della donna andava al dibattito: “Dubat (era la parola "chiave" che apriva e chiudeva il discorso, come dire ciò e ciò deve essere) Dubat (era la parola di mezzo, che significava ciò è buono) Dubat (nel senso qui di, in ogni caso è sempre buono) Dubat (per il contenuto del momento specifico alla situazione di quel dibattito stava per: “Non possiamo spiegare chiaramente il senso di Dubat cosa che richiederebbe di considerare la Storia Universale tutta, le ultime implicazioni delle passate ore di oggi, ma Dubat è implicito, signori, è inteso). La risposta fu: “Nodubat (era per opposizione quello che era rimosso, le questioni aperte, le scelte, le altre parole che ci dovevano essere, ma la cosa era molto misteriosa e in fondo era complementare alla logica del discorso, fine a se stesso: Nodubat per rigore non significava nulla.) Il rapporto internazionale di Dubat era nella sua totalità quasi definito come “Relazione estero Dubat”. Qualcosa non era quello che doveva essere, passi un guasto anche se strano, anche se inspiegabilmente un robot garantito oltre la vita smette di funzionare, anche se questo era solo un giocattolo per bambini, ma l’attesa del toys center, l’inspiegabile oscillazione del canale video, perché? Per nessun motivo poteva succedere una cosa simile, forse come stava solo adesso capendo dal servizio televisivo per una … malattia.

 

 

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Le malattie, il grande flagello del genere umano maggiori per sofferenze e numero di qualsiasi altra calamita, queste malattie gli ospedali, le cure, erano state chiusi e le malattie debellate anni addietro, da dieci anni non si verificava un’infezione, una degenerazione, un problema neurale, ora apprendeva che era in corso un accertamento. Quasi scherzando si poteva dire che era la fine, la perfetta macchina si scrollava la schiena con un’epidemia. E lei, la madre di Efu, si sentiva proprio una pulce in quel momento che ad unisono con altri provava vergogna e paura, che diceva, no non è vero! Era solo un caso isolato. Un’affezione influenzale che impediva il ciclo di Krebs la morte in ventiquattro ore per soffocamento o incapacità a utilizzare l’ossigeno. La foto del bambino agonizzante fece il preciso giro della terra nello stesso istante, quel viso era diventato un’icona, questa volta di un fatto che richiedeva che riguarda tutti, lei cosa avrebbe fatto?

 

 

 

 

 

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Era al sicuro nella sua casa con Efu, si chiese eppure si avvisava di rimanere in casa e che presto ci sarebbe stato un vaccino, non era che una semplice influenza, lei non era cosi giovane da non ricordarsi i tempi passati. Si accorse che Efu era andato a letto ed ora aveva la febbre, era infetto e cosa poteva fare adesso che i telefoni erano isolati e la televisione trasmetteva immagini di bambini che tranquilli correvano in cima alla collina tra le rassicuranti braccia dei genitori? Era la fine, lo sembrava soltanto, strano, buffo, assurdo … si capiva solo fossero parole.      

Nel fondo dell’oceano sotto i ghiacci artici si era fatto molto da quando la missione di sommergibili della Confederazione Russa aveva rivendicato l’appartenenza di quella zona della Terra, dopo che ne nacque una disputa, concentrato l’interesse, spedito armate flottiglie navali, si passo ad una colonizzazione, alla costruzione di miniere, pozzi e alla base internazionale di ricerche, una costruzione per lo più segreta sprofondata è il caso di dirlo ad una profondità vertiginosa, di un tale livello tecnologico tale appunto perché voleva essere il primo passo alla conquista del sistema solare, all’adattamento alle sue condizioni dure e proibitive. La cella di Uiz era bianca una distesa senza nessun oggetto, come a volte le stanze dei manicomi o per la tortura, Uiz dopo dieci anni trascorsi in quel luogo non aveva più nessun senso della profondità: potrebbe essere un pesce in un acquario che per intero mondo ha pochi centimetri ma non smette di considerarlo tale e non si avvicina più al vetro, non riesce in un qualche modo si rassegna.  Questo luogo dove si trovava Uiz era sprofondato sul fondo dell’oceano sotto la calotta artica dentro una base militare e dentro a corridoi, sale operative ristoranti, in un carcere era in una cella di massima sicurezza. Uiz si trovava in quel luogo a sua insaputa da dieci anni, prigioniero destinato come cavia dell’esperimento, era una procedura insolita destinare un uomo a un destino tanto crudele contro gli elementari diritti umani, ma forse non v’era davvero altro modo di verificare quella scoperta, quale quella fatta dell’astronave “Marte21”. Gli astronauti erano arrivati su Marte e avevano trovato durante gli scavi, una zona arida bombardata da raggi solari rossa asfissiata dall’effetto serra di questo pianeta, un oggetto che poteva forse, dimostrare la presenza di un’antica civiltà extraterreste, e seppure l’analisi archeologica non potesse confermarlo che quella specie di testa su una moneta ricoperta da fantastici occhi, che sembravano tutti guardare altrove e che questo Giano bifronte sembrava fosse posto nella forma di avere gli infiniti nasi nelle posizioni tutte che può assumere un volto, questo testa incisa sembrava appunto una moneta. Quello che fu confermato era la presenza sulla “moneta” di un filamento di DNA, una concatenazione non casuale di aminoacidi, non abbastanza da poter parlare di vita, era una cosa troppo semplice, seppure si fosse conservata ed era leggibili, ricopiabile appunto come banalmente si ricopia un numero di telefono in agenda, gli si poteva dare la possibilità di riprodursi nella speranza di vedere formarsi un organismo, topo o dinosauro che fosse.

 

 

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La notizia della sequenza, una forma “magica” della vita ( puro cifrario di basi amminoacidi e numeri), riportava che questo DNA si sviluppava come un semplice virus, trasportato in un organismo evoluto come una lepre australiana provocava nulla di dannoso, né la morte, né una malattia e neppure un contagio: si riscontravano nella lepre l’ispessimento della cute con una maggiore resistenza al freddo e al caldo, una maggiore acuità visiva con aumentava visione notturna, appetito, una possibile ricaduta commerciale era possibile visto che “BF12”, il virus in questione, sembrava anche se non lo si poteva confermare ancora, utile all’Uomo.

Per testare questa seconda ipotesi Uiz era da dieci anni chiuso nella cella, e per questo immune. Lui non poteva sapere se in questi dieci anni fosse stato portato il virus a contatto con altre persone, sulla superficie dove splendeva il sole dove non v’èra l’oscurità degli abissi, se quel virus avesse avuto una latenza tale da rimanere incubato per dieci anni, non rilevato dai sistemi di analisi, se grazie alla sua mancanza di sintomi si fosse diffuso a tal punto nella popolazione da infettare la totalità o quasi per poi alla fine rivelarsi, manifestarsi pressappoco allo stesso momento in modo, letale, catastrofico. Uiz era immune, ma forse solo lo credeva essendo abituato alla sua cella non poteva sapere se avesse due braccia, lui sentiva ancora di avere due braccia, ma poteva averne di più sei o che, poteva ancora avere una testa e due gambe, lui sentiva ancora di avere una testa e due gambe, ma che poteva sapere se ormai guardando allo specchio non vedeva che infiniti sè chiusi in una cella bianca, medesimi a quello che i suoi occhi volevano, e certo non vedeva che solo quello che voleva vedere, ciò che non voleva vedere era male e non lo avrebbe mai visto di certo.

Quando la cella venne aperta come reagì la pupilla, il globo, la retina di Uiz non si può sapere, la resistenza sviluppata dalla lepre australiana forse è in relazione esplicita, il passaggio da una forte illuminazione a una centinai di volte più attenuata, era stato dieci anni davanti ad un muro bianco, dove era ora c’erano stanze, mobili, schermi, robot, non è chiaro come gli spigoli ritornassero ad essere spigoli, le maniglie ritornassero a esser maniglie, i punti, punti. (era un muro un muro o ci sarebbe andato contro, a sbatte, boh) “La base artica si distruggerà una volta completata la procedura” era un messaggio che era diffuso nei locali, deserti e abbandonati che solo lui solo per lui forse, aveva un senso. Un piccolo robot di servizio si avvicinò a Uiz e disse “Presto, verso i siluri di espulsione, presto si accomodi nel siluro di espulsione”. Gli disse questo e Uiz si ritrovò in un ambiente chiuso, senza sapere cosa stesse succedendo, in attesa.  Il buio anche se si è ormai stati solo e sempre in un ambiente luminoso non arreca danno, non provoca morte e terrore, ma è l’inquietudine, la paura, il presentimento che nel cambio nell’assenza, nella diversità generano in chi lo prova un mostro, contro di sé, distruttivo. Uiz non sapeva nulla di quello che accadeva, non aveva avuto rapporti di nessun genere, non aveva veduto più per niente nessuno, questo essere dentro ad un siluro sigillato, gli provocò un senso di dolore che si trasformò in un’allucinazione: si sentiva un uovo, un uovo in cui albume e tuorlo crescevano a dispetto del guscio. Era come se senza contenere questa paura incidesse piccole fratture dalle quale lui uscisse, diventata un uovo al contrario. Il siluro sarebbe potuto già essere stato espulso, avrebbe potuto stare navigando senza accorgersene, ma questo lo capì solo quando la sua navicella entrò in un porto, ancora a lui ignoto emergendo accanto al molo. Si rese conto che era a New York, camminando vide i robot che si muovevano per le strade, a conferma che fosse New York vide la Statua della Libertà, ma avrebbe potuto essere cosi ovunque, solo robot, nessuna persona. Probabilmente era avvenuta un’emergenza che aveva spinto le persone ad abbandonare le case e gli appartamenti, i luoghi di lavoro, non v’erano che i robot a difendere o custodire quei luoghi. Forse, le persone morte erano state trasportate altrove da robot, ma c’era ancora qualcuno lì sulla terra, si chiese, era assurdo ma sperava ci poteva essere ancora altre persone che ci fosse: forse, un’anziana signora che viveva sola e isolata, una giovane ragazza immune, un bambino che era scappato nei boschi, fedeli queste macchine proteggevano i loro padroni o proteggevano se stesse e quel diritto che avevano acquistato di muoversi come volevano e dove volevano, lo spazio che era ora tutto loro? Era semplice, tutto gli apparve semplice. La vita era la forma più semplice della materia e gli sovveniva ora complicatissime strutture e organizzazione di cui non v’era traccia nell’universo, semplice era la legge di legare la vita al minimo possibile di cose possibili. Avrebbe potuto cercare nell’immondizia trovando un qualsiasi mondo, una pistola per uccidersi, un futuro.

 

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LE IMMAGINI E I TESTI RIPORTATI NEL PRESENTE SITO E QUESTO MEDESIMO RACCONTO, SOTTO LO PSEUDONIMO DI AMULTIMEDIARTE SONO DELL’AUTORE MEDESIMO AMULTIMEDIARTE. LE VICENDE QUI RACCONTATE SONO IMMAGINARIE E FANTASTICHE. OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI REALI E’ PURAMENTE CASUALE.

Domenico Merli

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