Privacy Policy - Personalizza tracciamento pubblicitario

 

  IL CLASSICO DELLA LUNA

 

 

 

 

“Si può andare contro la ragione,

Ma non contro la coscienza.”

 

(citazione a memoria da: Eluana.

La libertà e la vita

Englaro Beppino, Nave Elena)

 

  

LE COORDINATE DELL’ESSERE

 

Pronto? Il telefono era collegato a diversi operatori contemporaneamente e ascoltatori. Lui pensò è un inferno! Doveva solo continuare, senza stress, quello che aveva in mente prima che la coscienza di dover morire diventasse la certezza di morire.

Come un dio ma quasi morto, pensò se stesso. In quel momento, iniziò il suo irresponsabile atto di gioia ovvero mettersi a scrivere, solo, solo come quel dio che si immaginava fossero gli scrittori; a quel punto però si trovava alle prese con un telefono alla cui estremità tante persone, tanti personaggi attendevano che lui rispondesse e nell’attesa perché non radunare questi tipi in un libro sotto un titolo diciamo “Il classico”.

Peccato che la verità non l’ha avesse, né per titolare con “Il classico” le complicate regole del classico nell’arte e né par giostrare una telefonata. Che un dio non era lo scrittore ne lui era mai stato, non era stato e non stava in paradiso, non aveva che un inferno umano intorno solo una tragedia, ma lui voleva semplicemente scrivere un libro dal titolo “Il classico” e facendo inebriarsi di gioia.

Correva la Luna, forse, corre attraverso tanti ricevitori e lampadine accese, accese da personaggi indescrivibili ma osservabili, osservabili da qualunque scrittore camminando in città, forse la Luna correva in cielo o non correva affatto ne avrebbe corso mai più, forse. Perché nelle sue orbite planetaria la Luna era stata seguita dagli sguardi nei secoli, ma ora non c’è, ne a nord ne a sud,  sempre presa tra la forza della terra e le brezza del sole, eppure senza un alito tra i suoi profondi crateri,  dalle lontananze che porta il ricordo troppo lontano da chi ricorda, c’è un ladro a rubarla.

Volando sulle mutanti spiagge che si muovono nel mare come onde, il ladro aveva speso tempo e fatica nel far mutamento della carta del mondo geografico nella mutata topografia di continenti sprofondati, si avvicinò indeciso alla Luna. Se fosse un colpa rubare la Luna e non solo una modifica necessaria a livello di spiaggia che c’era e non c’è più, semplice mutamento geografico o fosse un furto più grave per via dell’inquietudine provocata dalle mutanti spiagge del mare per il movimento tettonico, o per l’oceano e l’universo questa Luna presa sotto un velo e fatta sparire, per l’inquietudine di qualcuno che si sarebbe chiesto quale fine avesse fatto da là sotto, sotto qualcosa che non ci sarebbe stato più.

Aveva preparato da tempo il colpo, meditato sul valore di un gesto cosi plateale e grottesco, e il fatto che sarebbe apparso a tutti in tutto e per tutto normale: era la grande forza illusionistica del cambiamento che cancella il passato e nessuno avrebbe ricordato che là in cielo c’era stata la Luna. Ma il passato è ingombrante e trasloca continuamente nel presente. La Luna che con qualche stupore di chi era nascosto nella città cieca di persone chiuse in locali, o almeno con qualche senso di stupore se non per la Luna per qualcosa che stupiva; l’avvertimento sarebbe stato un sentimento involontario; vi fosse o non vi fosse la Luna. Era notte la Luna …

 

Pronto! Ero al telefono collegato per parlare con il mio amico, e attendevo che lui, prendesse la linea o meglio che dicesse come me: Pronto! Il suo nome era UMT (uomo che mangia topi) e invece lo sentì parlare con un suo amico tal CTD (cavallo da tiro dismesso) e dire:

“Non trovi che questa notte sia un po’ diversa?” disse CTD.

“No, forse un poco … o meglio, scura come sempre.” Rispose UMT.

“Non trovi che manchi qualcosa? come una Luna, che so sì …”

“No, questo no …” riprese senza concludere UMT.

“Dovrei forse dirlo a qualcuno che so, dire se c’era prima la Luna …” ma CTD fu interrotto.

“Lascia stare, non dire stranezze” prese a dire deciso di risposta UMT ma io stavo già navigando nelle infinite linee telefoniche del pianeta, cercando qualche parola, umano conforto dell’esistenza.

 

 

 

 

 

 

 

CTD era un uomo un poco più robusto degli alti, tanto era peloso che lanciandolo da un ponte vi rimbalzava, ma non pensavo che lui fosse diverso una differenza più una scelta in uno strano mondo; il suo aspetto era, per altro, differenza rassicurante. Io avrei conosciuto meglio CTD in seguito,  in quel momento  una forte accelerazione lo stava facendo rimbalzare da strada a strada, per senso e per significati  che da quelle braccia peloso usciva come parole approssimativamente esatte. Dall’avvinghio delle sua rimbalzante potenzialità  io ne ricavavo solo in parte una visione corretta, simpatica ed esaustiva della vita ma lui rimbalzando arrivò lungo uno strano ginepraio per un viale fino all’amore mio, forse di solo una lunga notte pensai, LCP (liscia come un polipo).

 

LCP era una donna bella e arrivò lì cadendo dentro un rete, qual pesce ingenuo che per la prima volta scorge nella rete il mare che credeva infinito e nella stessa rete caddi io che credevo il mare infinito. Il mare è finito con un susseguirsi di reti o barrire. Per quanto scoprimmo dopo che la distanza deve essere percorsa ben oltre qualunque barriera, in questo acquario finito e pieno di barrire c’eravamo finiti, LCP, CTD ed Io.

Dove all’illusione di felicità che necessità l’universo infinito e senza ostacoli, in noi tre si sostituì l’ossessione di macchie di colore e dure pareti seppure trasparenti invisibili quanto dure mura. La LCP distesa era una donna quanto bella quanto unica nel suo pallore.

LCP era stata al telefono. Pronto! Tutti risposero: pronto! Liscia come un polipo distesa sul divano addormentata, non si accorse per nulla di me non fece resistenza per un windsurfing lungo e innocente volando la sfiorai appena un millesima parte della sula pura e innocente superficie. Della mia voglia di scendere giù, volare a terra che motivo avevo?

 Su un divano con la linea del telefono aperta, come una noiosa zanzara solo per il gusto di sciare, planare, guardare dall’alto il lungo corpo di lei sotto le lenzuola, ridicolo. Nelle mie orecchie stanche di tutto, nelle sue ronzavo per ronzare.

Ancora inconsapevole che la vita mia lì terminasse, che dal telefono sarei dovuto uscire morto per rientrate con piacimento nella storia della mia fine, ritornando sul mio accadere come un de’scia vu, scelsi di andare dalla nascita fino a lei, mia morte, lungo tutto le fasi intermedie, vivevo e rivivevo in continuo, i suoi piedi, le sue dita smaltate  e come trampolino dalla punta dei suoi piedi spiccai il salto oltre qualunque virtù e peccato, in un nuovo inizio, volai verso la Luna.

Dove ancora era la Luna? Ero di fronte alla questione centrale, chi avesse rubato la Luna? Ormai ero certo che l’avessero rubata. Non c’era modo di ritrovarla volando là dove era sempre stata, tra dure lacrime, gli passai attraverso senza accorgermene, nel ricordo del satellite, con dure lacrime di spine.

Dall’alluce della ragazza, da quello di LCP ero caduto nello spazio del cosmo nei dintorni della Terra nella zona del Sole, tra Venere e Marte … sputo ero che in un balzo dalla collina di un piede  passando per la noia di una bella pianta del piede o timore del viaggio che ne sarebbe seguito, cade.

Quello che non poteva che essere il mio scoglio ed il suo superamento, passata l’esitazione della stretta alla gola del caduta nel vuoto, svanì ed ero già fuori dalla stanza pagato il timore di qualunque cosa con una meta e una destinazione, era tutto quello che avevo. Chi aveva rubato la Luna? limpida la sera, le case tagliate da strade, persone e la Luna, come dissi non c’era più e lì io andai. Trovare il colpevole era per me la necessità di morire due volte.

 Ero votato all’ignoto da una precisa convinzione che seppure non conoscevo le forze che regolano l’universo non avrebbero più avuto nessuna influenza su di me, la geografia non comprendeva nulla neppure le autostrade o i satelliti dei pianeti, ero incosciente; una torta di cui ero uno strato incosciente. Non sapevo delle correnti gravitazionali e non me ne ero fatto un problema neanche indagando sulla scomparsa della Luna, nulla sapevo più, incosciente che l’amore nasca dalla conoscenza di una donna che ha cuore di riceverlo ed ora è lontana, ero nel vuoto mentre la canzone suonava  qui …  qui non arrivano gli angeli.

Era solo un’attrazione di un corpo, mirabile in cinque rivoluzionare dita del piede di donna, era solo l’attrazione per un corpo spaziale, un satellite rubato. E mi stetti sospeso da qualche parte dove più o meno i calcoli continuavano a dire vi sarebbe dovuta essere la Luna, in quel punto io, buffo, invece di pensare, non pensavo a niente, guardavo la Terra, la sognavo e quantunque la pensassi io ero una battaglia navale finta o gioco passatempo, B1 mi detti nome. Buffo gioco dove c’era e non c’era la Luna, pensai intensamente, ne Luna ne me, ne spazio ne tempo.

Anche se adesso ero B1 di una battaglia per ragazzi e con tanto di assi cartesiane non trovavo la Luna rubata, che doveva avere dall’altre coordinate. Semplicemente ero il simmetrico del ladro, però lui era e aveva un’altra matrice identica. Potevo osservare la mia meta della mappa e non la sua. Come faceva presagire il funambolico gioco di destrezza del ladro, questi era B1. B1 cioè sulla meta del foglio che non vedevo ed io B1 (identica sigla di lui solo eravamo su due pezzi strappati di un foglio)io ero e vedevo me B1 di questa matrice,  il ladro B1 di un’altra pagina di calcoli ed lui era da qualche parte tra la Luna e la terra e seguiva le mosse sul suo fogli a quadretti. Ciò è il gioco capire quello che il ladro fa e pensa. Questo è pensare il nascosto.

Io avevo eletto il mio posto dove intraprendere le mia azione conseguente a questi avvenimenti, per trovarne un senso ai fatti ed era un posto o una difficile collocazione nel foglio quadrettato di un taccuino della battaglia, era probabilmente  la mia la mappa di un rifugio. Osservavo da questo punto, nel punto più strategico di una conquista, dentro la conquistata perdita ero io e l’avversario un quadrato di foglio di lapis dove muoversi: il terreno misurava il potere di me e un altro stratega speculare x¹  del mio x e solo in parte sistema a sé stante di me ( non x di lui x¹).

Come fossimo due bambini alle prese con la battaglia navale con le miopie del potere stesso, che vuole per volere, “affondare” o “colpire” a dispetto ed arbitrio.

Basta! essere convinti che tutto si può avere … anche la Luna; quando si vuole … io dovevo mettere mano ad un grande lavoro di trovare l’armonia dell’universo, “Il classico della Luna” era di questo lavoro sull’armonia classica fatto in vita ed uscito cencio lacero e sporco, misero racconto della ricerca di un armonia personale se non dell’armonia dell’universo che per l’autore ha coinciso con la mancanza, e la morte.

Che cosa è che c’è, se tutte le cose esistono e lui ( qualcosa o qualcuno parla di me) lui pure esiste più o meno come era sempre; quando l’uomo dorme, cosa è lui se è sempre tutto uguale. Esiste sempre l’armonia delle stelle, sempre la bellezza, sempre la paura e mi chiedo se questo mio stato di veglia e coscienza non sia una cosa che non c’è mai stata.

Stando volando giù dove le idee sono fatti e sono cose, pensavo alle donne e agli uomini distinti in psicologie, sessi, nevrosi e gesti distinti. Proprio l’umanità e non la natura ha concetti e idee quali non v’è traccia altrove, sassi hanno comportamenti geologici e fusioni del piombo ma del uomini, della donne, del bambini di questi tutti hanno “fusioni” diverse sono psicologie e non una psicologia che non esistono altrove di questa illusione. Il concetto d’Identità è solo per i primati superiori e che ci siano ancora cose, cose, cose, senza coscienza di un identità ci sgonfia l’Io.

E’ certo che l’uomo crede nel essere solo grazie ad un flebile senso di identità che si sgonfia davanti ad un tramonto o ad una montagna e allora si rigonfia nel facile misticismo. Sono un meccanismo o un organismo? Sono forse, io sono un disgraziato fortunato, io sono?

Il “Il classico della Luna” è un testo oscuro e creativo, scritto per uno strano caso quando l’autore era arrivato con lo studio a  conoscenze che non capiva, che temeva e in particolare l’idea di un modello classico nella letteratura insieme a bisogno che sentiva di un spinta creativa gli fecero immaginare un strano mostro specchiato in questo racconto. Dove per classico si può intendere armonia come modello di riferimento nell’arte e i modelli attuali che non sono la stessa cosa del classicismo, al di là del classicismo storico nell’arte, l’armonia non è solo un modello di intrattenimento, ma quest’’armonia che è nel modello classico è solo nella creazione artistica?

Riesaminare ( cosi segno il mio lapis). Nel solco bagnato della civiltà le cose hanno una legge, una qualunque legge? Il Caos? Anche una semplice mostruosa armonica legge che prescinde dall’uomo scopritore però, che fa di lui cosciente di un riflesso del vero, il mondo delle cose di per sé. Cose senza identità.

Io sono solo, solo a scendere, scendere il duro cielo a colpi d’ala, mi chiamo B1 come nelle partite di battaglia navale le caselle, ho le ali e volo. Ho le ali mobili che dismetto per essere qualcosa d’altro di una passero ma non sono eroe non sempre ho un corpo stabile a volte sono leggero come una piuma ma non sono mai stato un eroe; poco ho dell’angelo molto più triste sacco d’ossa che rimbalza, da qui alla Luna.

Sul foglio ha quadretti c’è il relativismo continuo di potere fare salti o stare in un buco, come quel B1 (l’altro di riferimento) che non mi è contiguo, se non a volte fino a sovrapporsi. B1 (il ladro) ha solo un malaffare con me, ed io con lui. Mi vincerà, ma la mia teoria dovrà pur stare in qualche tasca del destino, tasca della vita. Il sole fonte di luce, quando c’è luce c’è sole. Un concetto maledettamente chiaro.

Alla fine l’intelligenza non esiste, e solo apprendimento se non fosse cosi perché B1 l’avrebbe vinta?  Ricapitolare. E’ il sole la fonte della luce. Un concetto maledettamente chiaro. Ma la cosa si complica. Non c’è da fare conto su nessuna conoscenza. Ogni cosa può assumere diversa forma, consistenza, peso, senso  aver indugiato sul fatto che siccome era luce allora sole può essere solo una perdita di tempo. Continuare,  ma l’armonia? La stasi delle leggi e la sospensione delle cose, cose  che sono l’armonia in quiete, non v’è legge , questo dare sole e luce è l’attribuzione causale o legge disarmonica in divenire?

Se fossi una rotella di un orologio, dovrei accordarmi con le molle e gli altri meccanismi sociali lasciando che la natura organica, terra, sole e pianeti, siano disfatti in macchie informi colorate come il piacere di avere un corpo.

Interesse questo mio per trovare notizie, video, libri che mi spinse ad abbandonare il  mio rifugio, sono dove ero forse un giorno a passeggiare nello spazio, sotto il mare, sono qui e là ma ho interesse o cerco il guadagno di una storia da narrare e per cercarla sulla terra trovo un uomo, non chiunque qualcuno d’interessante.

Perché il classicismo letterario che mi serve per scrivere “Il classico e la Luna” è prima di tutto scrivere di un uomo interessante per il lettore, e anche per me, e per avere un’armonia classica sarebbe dovuto essere un libro con molti personaggi maggiori e minori tutti interessanti, ma il classicismo si esaurisce in pochi personaggi interessanti, essere classica per modello e forma è essere soprattutto con grande respiro storico. Un po’ di questo e di quello qui si pecca, fino ad apparire un lato romantico, fino ad apparire una poesia disperata e decadente.  

 
  

 

 

 

 

 

Scrivo un lavoro che mi è già stato dato in sorte prima di tutti i tempi, oppure è solo una coincidenza. Userò le mie forze per trovare qui con voi i personaggi giusti per il libro, le persone interessanti ma … chi è interessante? Se io lo sono stato nelle pagine che precedono, e di ciò dubito, è solo che da anni abitavo quella Luna rubata, ed ora cammino per le strade chiuso in me, nascosto alla vista degli altri, stando molto lontano, come si conviene a chi non ha ne amici ne una compagnia. Cercare altri cosi come me? Invece, plano con le ali di fantasia su di una scuola in un paese dove c’è un ospedale, vicino alla stazione di polizia, con una piazza e una chiesa, è … un normale paesaggio . Il posto è uno qualunque facile da immaginare ma c’è una ragazza che porta a passeggio una cane.

E’ un interesse per la scena che blocca la mia caduta dall’alto, interesse per una donna che porta a passeggio un cane, e dovrei scendendo non arrestarmi sul suolo erboso e dovrei scendere dentro il suolo, dentro un qualche cristallo che è simbolo di armonia, equilibrio, ma voglio fermarmi presso questo cane che ha una bella donna come padrona, mi sento più questo cane che un minerale sepolto da millenni, di certo soffre più il cane.

Il cane guarda la donna che non regge lo sguardo, lo umilia con il suo fastidio ma non era sempre stato cosi. Devo contestualizzare storicamente almeno il cane e la donna. In quel preciso momento alla Tv passa un programma di satira politica, per effetto della quotidianità in cui vengono filmati i politici, senza la situazione canonica delle monumentali sale, si percepisce uno squilibrio di essere mostrati in strane smorfie come a dire “ se sapeste?!” (forse, tutti sanno ma …)

Ma non è chiaro se questa illusione ottica della gloria sia un evento della storia universale, o solo un preciso contesto storico. La ragazza che ha il cane al guinzaglio ha solo questa vita e prima ne aveva un'altra, era una dama del Settecento (è una mia fantasia sessuale la sola vera e propria per la storia il Settecento prima di rinunciarvi qualche volta lo vedevo come il tempo della felicità suprema prima che la morte costante di passanti alla fermata del bus mi spingesse inevitabilmente a rinunciare alla ragione, e a quasi tutto).

 Ma se la ragazza con cane a passeggio fosse un vampiro e per questo longeva lei stessa non lo sapeva avendo visto di lei quel esperienza sola l’essere diventata grande con il cucciolo del cane ed ella era ora una donna piacente e giovane e il cucciolo un cane d’età che scostato da lei, andava ad annusare qualche spirito chiuso in un albero. Il suo fastidio riguardo al cane, lo ricordo per inciso, stava nel fatto che lui vecchio era diventato patetico e ero questa sensazione che guastava ormai tutte le loro passeggiate la abbandonò quando la zampa destra del cane e quella sinistra si fermarono, quelle anteriori si piegarono. Il cane si sedette. La storia rimane come un dirigibile sospesa, ancora non se ne vede nulla tra il Settecento e il suo futuro conseguente o accidentale. I grandi romanzi storici almeno da un certo punto in poi mettevano salde ancore nella riuscita narrativa ad esempio ricostruendo architettonicamente gli ambienti, raccontando i cambiamenti sociali e politici, i personaggi parlano ma solo pretestuosamente un gergo che rende poco onore ai documenti storici dell’epoca trattata. I dialetti sono tutte le lingue nazionali del passato che i personaggi dei grandi romanzi non parlano mai. Essendo il linguaggio di questi personaggi miei qui legati o all’intelligenza del cane, che per quanto evoluta e solo in parte nota, o alla disturbata psicologia di un uomo volante che per altro dovrebbe deficere, o di un ragazza che non sapeva nulla del suo linguaggio nel Settecento, o di un uomo fin troppo peloso che si presume abbia un livello linguistico, dannatamente povero.

 Un linguaggio specifico per l’uomo che mangia topo ed interiore un pensiero l’ha solo in parte mentre B1 (il mio peggior nemico) tace di un silenzio implacabile. L’elenco non si chiude o quasi si sospende. Un linguaggio richiede sforzo, dedizione per arrivare codici complessi come lo studio della matematica o un poco di creatività per trova qualcosa da dire.

Ma la lingua in un romanzo storico e cosa minore. Non si ricostruiscono lingue proprie delle epoche, non sarebbero capite, si ricostruisce epoche o immagini di sussidio, invero comune. La ragazza potrebbe portare nella sua esperienza l’esame della mutazione della lingua in diversi secoli, esperienza da pluricentenaria, ma non ricorda nulla. La trasformazione di in di de nel volgare nel quale  indentro diventava didentro e più seriamente lei aveva ascoltato il suono di un momento imprecisato del secolo millesettecento cristiano.

In francese o in svedese, in un qualche modo sa come le sillabe, se le doppie o le consonanti o le vocali hanno cangiato la sonorità, la grafia nel tempo; ma non sembra ricordare nulla.

Questo  segreto è chiuso in un oca. Tanti linguisti, storici, romanzieri la cercano, cercano lei che forse, è solo bella e pensano che nella forma ci sia un senso, patetico forse della nostra vita. Forma intesa come rapporto tra segno e fonema risolto pensando solo alla sua bellezza.

 Come fosse nata oggi, al di là di ogni cosa della comunicazione, archiviati le diete simboliche della comunicazione di segni e suoni veramente vuoti, nel mutismo, scartato l’uso  dei prodotti culturali più diffusi; evitate le parole chiare ed emotive, come calcio, democrazia, notizia, divertimento … lei era bella.

Lei però non vuole ricordare, punto. O non lo fa perché non può avendo dovuto fare un viaggio odioso trasmutata in pipistrello. Necessità di affrontare la morte che tutti, tutti noi abbiamo come paura atavica e altro non fummo per certi versi che vampiri, passanti nella tempesta i continenti, dimenticato, dimenticato il Settecento, l’Ottocento, in una necessaria amnesia della morte sperimentata come uno dei possibili stati della materia e dello spirito.

La ragazza veniva da un simile viaggio, dove io ne intuivo solo la sua profonda disperazione e diviene più attraente. La sua femminilità addirittura provocante e il trattare con stizza il cane e me, giustificato pianto di chi non avrà mai comprensione, ed il sensuale desidero baciarla ampollosamente come in Casablanca, tra l’erba di quella sera c’era tutta nebbia e cataratte piene di lacrime, e quel maledetto cane che lì ero diventato canino … però qualcosa so di lei, che va oltre le sue incredibili competenze della vita e della Linguistica, ha un senso di malessere di fronte alle biblioteche di libri antichi.

Prendendo un volume, sfogliandolo trovava un malessere, un’angoscia nel non riconoscere quelle lingue passate, quel ampollosità del secoli passati, quelle sopravivenze di costruzioni latini, quella particolarità degli idiomi, di essere  veramente, esattamente fedeli, scritti proprio nell’originale in quel modo. La vertigine del tempo, che le danno, i libri, il troppo potere di pochi, le grandi sconfitte, tristi vittorie …

Ma lei sospettava vi fosse un dotato funzionario di qualche segreto dipartimento vivo, attento, anche bello detto Molière, come il grande commediografo francese, responsabile della revisione ultima culturale (anche degli originali).

L’uomo più potente che lei poteva immaginare, temere e amare. Penna in mano scriveva in modo tanto chiaro e attuale tutto quello che voleva e poteva ancora sapere della lingua, della logica, della storia e dell’uomo, e di un tale Socrate di un tal Wittgeinstein non perché imperituro ma perché lui aveva studiato!

Solo lui aveva studiato e capito, gli altri meno a volte appena imparato. La dote di capire e cosa che non s’apprende. Cosi come un passero vola, egli aveva compreso il mondo, quale era il suo posto e cosa fare della sua vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

L’EMOZIONE

 

Pieno il mio cuore come un fiammifero che si accende per vedere la morte, e tutto il resto non contava. Scrivere anche in modo confuso, potevo scrivere della più vera disperazione di scrivere ma sarebbe stato falso, non soffrivo per la penna più di tanti altri. Ma avevo l’immagine della mia bara che scendeva nella terra, e pensavo ancora a scrivere.

Io nella mio rifugio avevo mandato tutto a fottersi, vedevo con un sorriso pazzo la scrittura, una tastiera di 105 tasti e mi bastava come se fossi alla essenza, alla essenza piena e felice della mia vittoria nella mia particolarissima battaglia navale, tutto a fottersi.

Posso dire che B1 (la pistola alla mia testa),  il bene e il male, la storia e la civiltà di qui non è mai passata, solo codici e scrittura. Finito e finto quasi uno scrittore cioè un uomo con una sua dimensione o spazio personale, su una sedia, anch’essa con una sua dimensione. Pagatemi con solitudine e che altro serve ad un artista, ma che noia questo fracasso delle novità, devo abituarmi a stare per sempre  nel mio angolo di Luna rubata, nello spazio profondo nello zero.

Le mie stesse pagine salvata nel personal computer, sono virtuali tanto virtuali, impossibili da toccare, blocchi del vuoto o parola, o frasi, o periodi ancora da approvare dalla censura, dalla redazione, dagli editori, cercare il successo il pubblico, e in questo mia ghiacciata assenza di gravità studio i mie due autori classici. Dante e Shakespeare il testo non l’ho ancora aperto. Ho fede in questi testi come nel consiglio del funzionario che di nome fa Molière come il commediografo francese: non è una traduzione letteraria dal greco e dal latino ( ma l’ufficio Molière consiglia di studiare greco e latino ) trasformazione di una civiltà ( l’ufficio Molière suggerisce di studiare la trasformazione della civiltà) in aiuto Montale con la filologia inglese. Qualcosa cosi capisco.

In tutto questo quello che mi sembra strano e come si riesca a tradurre comprendere bene in antropologia culturale il pensiero dei gruppi e tribù primitive “rimaste” primitive, mi sembrerebbe logico che non sia possibile tradurre il loro pensiero poiché le lingue europee si somigliano ma le altre sono diverse. Non so come si finisca per usare parole che hanno un equivalente tra lemmi diversi distanti per cultura e tempo, una corrispondenza tra primitivo e moderno esatta, perfettamente calzante dove è il costrutto stesso dovrà divenire ad arbitrio lingua universale.

La somigliante grammatica non solo tra latine, sassoni o slave che finiscono anche per ridursi in uno spostamento del verbo, in un omissione del soggetto, ma con i primitivi che direi dovrebbero pensarla diversamente. Parlare in modo un po’ diverso.

Non dovrebbero semplicemente dire “ho fame” popoli antichi o primitivi ma esprimere un concetto di fame che non implichi il supermercato e il salmone inscatolato. Se i romani erano come i greci alle presi con l’invenzione della lingua e ( non la stavano riscrivendo ma inventando) allora la parola “fame” è diversa intraducibile e irrimediabilmente persa. Le parole sono storicizzate.

Il senso che aveva avuto per chi viveva in una terra lontani da noi è mutato completamente, il senso ripreso e rivisto in continuo cambiamento fino ad oggi, non in una semplice sequenza di sensi ma di mondi diversi che si susseguono fanno dei nostri antenati degli estranei, solo il primitivo sembra essere linguaggio non mutante. La complessità lessicale si semplifica nella fruizione dell’arte nei secoli, la comunicazione si dice scorra tra il dipinto e l’osservatore e il libro antico è oggi veramente però fruibile? “Molière” ha su questo posto un veto, e non saprò la risposta.

Un visione contenuta di tale ampiezza universale è la biografia o la persona di un autore. Appare l’artista che trascende i secoli quasi un superuomo per nulla interessato a fare per fare l’artista, ma bramoso in un salto nel capolavoro immortale. Era cosi, sono questi i nostri artisti? “Molière” dice che la domanda è mal posta, e io non saprò la risposta.

 E’ fuori dalla possibilità attuali un capolavoro narrativo che superi il nostro tempo, bombe, razzi, viaggi spaziali e chicchessia che si spinga oltre, è possibile o fuori dalle possibilità di un solo artista?

La ragazza con il cane e per tutti colori che sono nati e per i padri e prima per i padri da centinaia di migliaia di anni fa, per i nuovi uomini che ci inventeremo e nasceranno; avranno avuti tutti i diritti universali degli uomini?

La complessità la conosce solo “Molière” e non saprò la risposta ma la ragazza è attraversata da vento forte e dalla complessità, diventa pipistrello dalla ali scure, travolta in mare aperto dalla tempesta, diviene essa stessa arte. Ma complessità per complessità viviamo in un modo molto tecnologico, molto difficile per la sopravvivenza dell’intelligenza e forse dell’anima e facile ad essere stereotipato, ripetizione, mentre per complessità che produce arte, complessità che è armonica delle dissonanze si rimanda al passato ai grandi

primo: Mozart che rese in musica il suo tempo e aveva la matematica, la cultura, l’intuizione e la creazione, le cose più disparante nel suo genio. La complessità nella musica di Mozart è resa in modo i cui tutti i problemi dovrebbero essere risolti,  ma la soluzione che viene proposta ci è ancora accessibile e possiamo vedere il mondo con i suoi occhio, sentire come aveva in pugno la musica il Mozart? Oppure è divento egli stesso un mistero insieme al tempo tutto, un lavoro insolubile, fosse almeno mostrare la complessità del rapporto tra noi e il mondo attuale che guarda in Mozart il Settecento.

 

                                              

La ragazza avrebbe voluto volare ancora, oltre le tempeste in mare aperto oltre ancora nell’impossibile bianco delle onde e delle nuvole, sola cadere con l’infantile desiderio di continuare ad arrivare all’acme di due semplici cose, essere ali ed essere semplici ali.

Come non fosse bastato arrivare a dodicimila metri per sganciare una bomba, alle guglie delle chiese per segnare la strada, non era bastato le pianure che accolgono il fiume, non era bastato nel ventre di una nuvola essere concepita, ed educata nel calore di un teatro; come tutti noi. Non era bastato per una pace, non bastava essersi scritta il suo requiem.

Ma era modo si chiese la ragazza essere guardata camminando con un cane timido e insicuro, attraverso un cimitero (era chiaro che lei non ne faceva parte e nessuno forse tranne il passato) ma è modo si chiese passando per il viale dalle lunghe ombre, lei che si sentiva parte dell’evoluzione dello spirito, incontrare gente.

Avrebbe voluto farla finita, prendere un fiala della conoscenza universale con le ere geologiche più lontane, piene di tutto quello che era stato sopra la superficie della terra da sempre, affondare nella coscienza precisa di essere un mammifero bipede, con gli stessi bisogni e desideri di qualunque altro essere della sua specie e delle più semplici forme di vita, dagli esseri monocellulari. Prenderla in fiala la conoscenza, a poco prezzo in farmacia.

Ma recidersi cosi da sé la possibilità di scegliere un paio di scarpe con i tacchi a spillo, quasi miracolosamente felice, mischiare questa infantile emozione di stupore, piacere e gratificazione con la onniscienza, rendere questa stridente beatitudine di un gelato regalato non le andava, lei voleva essere ancora una bambina e Dio, la avrebbe resa la persona più triste mai esistita.

Era in prova in farmacia la fialetta delle concatenazione dei fatti. A giustificare la sua presenza come fatto, avrebbe dovuto in modo veloce leggere tutto ma per scavalcare le lunghe ore in biblioteca, l’acquisto di libri, cartine, microscopi, pagine di giornale sarebbe stato più veloce berseli. La conoscenza minima era il fatto, lei. Ma come avrebbe potuto leggere in pochi minuti tutto della Filosofia e continuare a fare battere il suo cuore?

Non arrestarsi su di un spaventoso baratro per quel fatto che lei era, lei era conoscenza e se si fosse conosciuta come non perdere la sua forza vitale, e allo stesso tempo uscire per andare a fare shopping. Nulla, nulla, disperdersi nel nulla per una ragazza che da qualche secolo si recava tra Vienna e Parigi in volo era l’unica soluzione ed era inconcepibile l’orrore di ogni fatto in sé.

Negazione assoluta di se stessa lei era qualcosa che lì la vita la affascinava come luogo diverso, radicalmente altro.

Cosi non sarebbe stato se non avesse avuto l’incubo ricorrente di un grande e maledetto vecchio sulla montagna, il Nietzsche non doveva regnare su una moltitudine di incoscienza, paura e violenza, costretto a concludere la vita come lei forse nella più oscura disperazione le sue conclusioni, che cosa altro avrebbe potuto temere?

C’era lei a guardare il cane che vedeva gente arrivare, due ombre avvicinarsi. Ombre bruciate dai lampioni, disegni, definizioni; come avvicinarsi d’esseri che se fossero stati il prolungamento della notte. Non le avrebbero fatto paura ma era la sua ombra consapevolezza della più assoluta disperazione. Le rimase questa volta a guardare il cane, i suoi occhi incontrarono la vergogna, la vigliaccheria e l’impotenza, di due occhi neri di cane vecchio. Le due ombre si fecero appresso, i due uomini sorridenti dissero:

“Buona sera, che cane simpatico!”

Lei rispose:

“Oh,  sera, il cane è un comico, muto, e domestico”

 Il signore che aveva una quantità di peli tra una pallina rimbalzante e una barba, le sorrise dicendo:

“Vorrà dire addomesticato, un cane da recita o un cane che scrive copioni, un copywriter, insomma.” 

La ragazza sorrise e precisò con cipiglio:

“E’ un tipo più estroso il mio cane e gran comunicatore, dottore in comportamento canino, esperto di finzione, ma sincero fino in fondo, non riesco però a trovare un termine più appropriato di cane filosofo, forse esperto in dizione del abbaio, ma le interessa questo discorso?”

“Certo, certissimo. Mi permetta di presentarmi, Io mi chiamo - Cavallo da tiro dismesso - come dire, CTD e sono molto lieto di fare la sua, la vostra conoscenza. Si tratta di un nome che deriva dal Grande Cratere, una storia spettacolare che si tramanda da secolo presso le mie genti: un dì si narra cadde un grande cavallo da tiro pieno di dolore e fatica scavando un cratere tale che parve incredibile chiedersi cosa vi fosse al di là, sopra e fuori”

 

 

 

 

 

La ragazza non rimase sulle sue e si presentò:

“Io mi chiamo Liscia Come un Polipo” LCP per gli amici, deriva dal termine ermafrodita in una sua eccezione propria di un popolo primitivo, di me però sono che sono una ragazza”

La ragazza si rivolse direttamente al terzo lì presente, non per mancanza di tatto ma il viso di costui, un poco felino e riflessivo, la incuriosiva. Stando a quell’ora della notte con il suo cane con una musica che si sentiva discreta pensò quei due signori fossero amichevoli.

“E lei signore, chi è?”

L’uomo alzò il sopracciglia e netto inclino la testa dicendo: “Sono L’uomo che mangia Topi o per la verità, LMT  ma ovviamente non si tratta di una dieta particolare più di un vezzo un fortissimo esorcismo contro l’angoscia come un cannibale a volte grido forte il mio acronimo: LMT! E penso di correre come un gatto da una parte all’altra: Angoscia e topo sono la stessa cosa, gatto, topo angoscia … la soluzione, non trova? Oppure uomo che mangia topi, topi e angoscia, non è cosi?”

La ragazza sembrò a suo agio ora che una piccola compagnia si era formata, era più rincuorata dalla piccole lampadine portatile che si rincorrevano sul prato come lucciole, dai topi innocui, dal suo cane, da un cavallo esausto buono, da lei come era diventata nel frattempo senza un pelo come una depilazione ideale, dal gatto che mangia l’angoscia e dal topo che scappa felice insomma li era con i suoi due nuovi amici, CTD e LMT.

Come lampadine portali o lampioni su una strada deserta, due fabbriche dismesse in periferia, un castello senza tempo che trotta, un piede dentro la grande avventura e un senso di estraneità avrebbe voluto dirigersi verso qualcosa come una serie di numeri, moltiplicati per una città, elevati al mistero.

Del perché un neonato assistito dalla mamma o dalle braccia del padre rimane perplesso su cosa debba fare e cosa sia il significato recondito di quel gesto tutti e tre lì si chiedevano, diversamente, nascostamente, perché?

Arrivarono qualche metro più in là. Era fatta, pensai, anche se si sono scordati di me, era fatta anche se di me era come fosse stato nulla, ero inesistente io e la Luna, erano inesistenti i telefoni, le lunghe barbe e io nulla: era fatta. Ritorno sulla Luna, il vuoto mi da brividi di freddo, non passa ma è più caldo il sole qui su più illuminato. E’ il sole delle mansarde incerto se sono mai stato felice.

Sono solo tre personaggio fin ora questa storia, anch’io ne faccio parte ed il cane pure ma questa storia non ha una trama. Strano, non mi preoccupo. Dovrei se pensassi alle grandi opere di letteratura che hanno un punto di grande fascino sul pubblico nella vicenda umana dei personaggi, i destini. La trama amorosa  è in questo romanzo solo a stento presente: Elena, Didone, Beatrice, Laura e le grandi storie d’amore tutta la storia della Letteratura da A-Z. Muoio Verga! Muoio Pirandello! Muoio Manzoni! Muoio Ottocento letterario! Muoio di tutti i casti amori! Un bacio sul grande schermo di un vecchio film americano! Casablanca. Qui manca la storia di un amore.

 Nasce però il mito del narratore che riflette molto prima di scrivere, completamente innamorato. Ci vorrebbe maggiore freddezza, amore o non amore … quasi un cattivo consigliere troppo autorevole, sono minacciato dal trovare una grande storia d’amore.

Ma documentandosi sul argomento dovrebbe a volte bastare, chiedere a chi è innamorato, come va? Anche raccogliere documenti lei e lui magari qualche variante e poi trovare documenti sulla epoca storica, ma un plot  che non reggerà con questi ingredienti. Ci vuole il “sangue” dell’autore. Mettiamoci, o mettiamolo o mettetemi alla porta sguinzagliandomi dietro i cani. Arriva a stendo sulla strada e si tocca il polpaccio morso in profondità, a sangue in bocca ma non deve essere una cosa grave, infatti può essere tutto. Fa freddo è notte, a fame non mangia da mesi, a sonno ma si ricorda dell’amore, del suo amore e cosi …

L’alto funzionario che chiameremo ancora “Molière” mi richiama dicendo che queste pagine vanno riscritte, meglio distrutte. Lui sostiene che oggi nel suo ufficio si è rotta l’aria condizionata,

“Ma no! Che dice distruggere le pagine, ma me le riporti con una storia, una storia vera! Qua sembra che lei prenda in giro il lettore, i libri, l’amore, crede che si possa fare un libro solo per divertimento, perché uno è felice. Magari felice in un mondo triste. Si attenga rigorosamente ai dettami dell’arte, e non faccia quella faccia da condannato a non pubblicare, e per di più felice.”

Il racconto realistico con la raccolta dalle informazione dal reportage giornalistico, alle informazione dai saggio e alla scienza, ha mostrato un fatto tra l’altro. Chi guardare la gente che passa sotto casa dalla finestra, rischia. Per la verità dimostra tante cose, che il romanzo e diventato qualcosa di poca fantasia. Ma anche che non conviene avere fantasie e spirito di osservazione. Che si può rischiare anche molto guardando fuori dalla finestra.

Il successo letterario e spesso legato ad argomenti presi di cronaca, dalla storia o dalla scienza scegliendo quelli di maggiore interesse e appunto successo per il lettore. Ci piace ciò che ci piace, le cose nuove non piacciono, ma le ricerchiamo. Se dovessi scrivere una storia “standard” parlerei di ragni, essendo anche un particolare fobia, quella dei ragni, troverei tanto di quel materiale ma comunque andrebbe bene quasi qualsiasi cosa direi sui ragni. Ma alla fine, il successo di che cosa?

Mi piace solo pensare e non lavorare. Scrivo quello che penso e siccome sono uno “scrittore privato” e non uno “scrittore pubblico” mi annoierei, insomma, a scrivere per me una lambicata vicenda sulla fobia dei ragni. Siccome scrivere mi diverte, scrivo e spero di non pubblicare se questo fosse un danno per me.

 Scrivo sul niente e sui piacevoli particolari del nulla cosi, per piacere. Solo il mio divertimento di muovere le punta delle dita da senso al mio scrivere. Pensare per accorgersi di pensare. E strano che guardando fuori dalla finestra diventa attività pericolosa.

Ricordo l’episodio del tutto quotidiano di tre quattro ragazzi al bar che mangiano, bevono, bevono non alcool ma acqua. Ma non è Letteratura in senso stretto ma ha avuto un grande successo, l’autore è ora scortato. Vogliamo la storia d’amore, i ragni, la città medievale, Napoli e la violenza senza punizioni. La mia arroganza ma soprattutto la colpa che ho scrivendo  senza una moglie, ne un figlio o una figlia, senza un lavoro, questa arroganza e questa colpa sono una responsabilità che mi assumo. Responsabilità diversa da avere un figlio, un lavoro, un dovere, responsabilità nei confronti del pubblico. Per il lavoro che non ho scritto ci penso, lo metto nel cassetto, mi dico, no, non pubblicare ... Forse, però.

Penso che sia la responsabilità non sempre positiva, costruttiva a volte distrugge. Io un giorno come tanti ma in cui ero stretto da una forte depressione temetti di non saper più leggere la lingua italiana e i numeri. Avevo avuto il compito di leggere un cartello, una targa sulla porta e dubitai a lungo su quello che vedevo, era proprio quello che leggevo esatto, forse pensavo di leggere ma in realtà c’era un'altra cosa scritta sul cartello. E la mia depressione non ne sarebbe giovata se non avessi da allora considerato tutto un cretineria.

La responsabilità (anche le piccole) per me è nociva. Quella veramente grande per tutti è la responsabilità del mondo anche per i grandi della terra, che lo sono dalla nascita come uno è nobile, è il loro destino che li porta ad essere almeno un poco stronzi.

Il mercato dell’arte raffigurativa, bizzarramente considera con venerazione di alcune opere, rende i quadri ossessioni collettive riproponendole e prosentandole a somministrazioni regolari e massicce. Una volta che ho visto “La Gioconda” non basta? Io sono arrogante, come scrittore è imperdonabile, ma cosa dire se non che sono uno che scrive delle cose che a dirle ci vuole un poco di stupidità.  Non è l’arroganza di per sé ma è quanto e altrettanto. La prima delle arroganze è calarmi in una ruolo che nessuno mi ha data, lo scrittore.

Ma spesso mi dico da me, prima di iniziare una pagina, si modesto, parla in modo pacato, non sentenziare arrogantemente. Ma lo devo ripetere a me stesso da sempre, e me lo ripeto sempre. Sono io un’anima che quando si guardo  prova vergogna, e vorrei coprirle il volto modestamente. Ma appena mi specchio la mattina mi dico ecco una faccia che chi la vedrà dirà, qui c’è arroganza.

 Non mi studio le trame, le storie,  se decido di scrivere di un papero che parla mi metto al computer e lo faccio, come questa volta, faccio ricorso ad una immaginario mondo che mi porto dentro da quando sono nato. Non è Letteratura, perché non riesco a pensare ad una storia d’amore che non sia già stata scritta, non è un saggio di storia perché penso che nel fantasia ci siano le parole per la realtà presente e passata, non è cronaca anche se la cronaca mi è intorno.

Io ho sempre desiderato scrivere, ho sempre desiderato scrivere i miei sogni ad occhi aperti, e lo fatto, adesso sto morendo. Io le storie che scrivo le immagino in pochi secondi, le scrive in poche ore, e le correggo in alcuni giorni, adesso sto morendo ma le cose sono andate diversamente. Proprio quando stavo perdendo tutto, senza aver scritto una riga, ormai spacciato il Dio ha voluto concedermi questo mio poter scrivere.

Per molto tempo ho pensato che scrivevo per i posteri, non per il successo dopo la morte cosi tipo nella storia del Libro del Mondo, ma adesso che so che morirò sono contento di aver scritto anche solo per il divertimento di farlo. Solo che sono già morto e vedo come il tempo resiste alla più fervida immaginazione, tutti i dubbi del lettore sul mio stato di salute sono leciti e se si vuole anche sulla fervida immaginazione.  

L’immagine e torniamo dove siamo ad una ragazza che porta il cane in un parco dove incontra due uomini è questa l’immagine e la nostra storia banale e ferma in un parco di notte come se ne trovano quasi in ogni città frutto di una fervida immaginazione forse ma certamente ferma da troppo tempo.

Passa un secondo ed è storia prima che tempo; già un giornale aggiunge una notizia, un progetto o una discussione partono e presto sarà anche l’attimo del capodanno del 2008. E’ attimo o secondo il cronometro che mischia alla storia di ognuno di noi, la corsa della civiltà.

 Delle guerre e della Letteratura: Dove si intende per guerre uno stato permanente e stagionale quest’anno la guerra in Medio Oriente e ciclicamente ne scoccerà un'altra da un’altra parte,  e per Letteratura si intende l’unico segno di scambio tra persone. Cultura è ogni comunicazione, scienza lo studio della cultura. E le particelle base dell’universo, il Bosone? Non so.

Sono al freddo sulla Luna, noto che da qui non si vede la festa, ma vedo tanti, tanti amori, tanti contesti sociali e storici, tanta Letteratura. Peccato che non dovrebbe essere cosi triste la mia storia …

C’è un fatto essenziale prima di proseguire: il cane. Come si nota è scomparso, era al fianco della ragazza, ben visibili con i suoi occhi che specchiano ancora la notte, con la sua sagoma tanto pietosa come un lampione lo è per le vie di città ancestrali. Opera di un ladro troppo preciso per lasciare tracce, nella memoria della ragazza, del signore che rimbalza nella barba, senza che si riesca a staccare lui dal topo, dall’uomo che mangia topi.

Che topo l’uomo, topo, uomo che mangia topi. Ma l’ansia di questo brutto gioco di parole mi spinge a questo; il mostro è il ladro. Di certo è il ladro di cui parlavo, è proprio quello che da qui sospeso nello spazio riconosco dal segno della sparizione del cane e deduco che deve esserci un ladro. So di certo, che sia stato lui come però sono impotente è terra bagnata, non sento nulla.

Sono qui sulla traccia di un furto senza trovare l’orma del ladro. Distendersi sul pavimento che regge sopra la Luna e la terra, che regge tutte le prove  le quali devono essere da ritracciarsi nella fantasia di questo autore o nel senso delle parole come essere. Se mi sforzo di trovare in questo racconto la chiave per arrivare al ladro, mi analizzo scrivere e scrivendo un mio discorso faccio una indagine psicoanalisi. In questo caso se ogni parola è mia e detta alla ricerca di un ladro devo girare e guardare lo scritto al contrario. In quello che ho già detto devo analizzo e trovo il colpevole di ben due furti in uno psicodramma tutto chiuso in questo testo.

Il ladro ha ben evito di lasciarsi prendere nella dimensione dell’essere soggettivo dell’autore si è oggettivizzato, almeno in certi momenti per me, là fuori ed inoltre ha evitato di lasciare qualsiasi traccia, scomparsa, il cane, scomparso il cane, io cercavo un ladro abile, scomparsa la Luna, e per giunta nessuno si era reso conto del cane, ma neanche della Luna rubata.

Era ben chiaro all’uomo dei topi, UMT, che mangia topi, la fatica di portare i sacchi:

“fatto – diceva riferito al un sacco immaginario posato – ancora uno!”

Stando nel parco, la ragazza liscia come un polipo fissava un’auto parcheggiata. Era chiaro a UMT che fosse una mulino dove il mugnaio divideva la farina, e a lui doveva portare i sacchi.

Ma era solo idea parziale, sbagliata, rimosso la cosa perché meta del macinato si eclissava, nascosto con il furto, la giustificazione del tutto, il senso della vita.

A parte tutto, la ragazza fissava un auto parcheggiata. Una Giulietta era la sua osservazione del momento, un modello Alfa Romeo. La luce di una finestra li vicino, si moltiplicava per i grattacieli di tutto intorno, linee nette tagliavano l’aria e la luce e salivano, salivano mentre la Giulietta, le persone si sfioravano per milioni di volte e tante altre volte. L’alveare era meno orrendo dei mostri che ogni tanto lì venivano, le persone aveva tutte un cuore, buono, un fegato, a stare al gioco, un testa, a compitare quel calcolo con un qualche risultato.

Ma la Giulietta le ricordava “Il sorpasso”, Giulietta stava scritto su un cartellone pubblicitario quel film lo avrebbe rivisto un giorno, il film tanto lontano dalla sua coscienza presente.

Non era una notte aristocratica quella notte potevano tutti sentirsi in una democrazia dove anche se tra i grattacieli non v’era il mare, come non sentirsi a bardo di una Giulietta sulla corsa di sorpasso lungo il mare verso la fine a 150 Km/h con la responsabilità di un amico in macchina, meglio cosi a volte, che personale suicidio ma centocinquanta volte più pesante, nessun incidente per le strade, diligenti, nutrite di mieli formiche operose per un senso tanto lontano da un viaggio.

 

 

 

 

 

 

 

IL DIVERTIMENTO

 

 

E’ successo un inconveniente nella vita dell’autore che devo menzionare. Si è posto una domanda assai scomoda e non volendo essere impertinente e offensivo la vorrebbe censurare, non riportala in questo testo, ma v’è una causa tanto felice per lui, essere in uno stato di astinenza da farmaco, riduzione del dosaggio preparata dopo anni di pesanti cure, ed infatti io feci due sogni in assai bizzarri.

Nel primo l’autore era ossessionato nella sua casa da un esercito nemico che invadeva le strade, e seppure lui fosse nel suo nascondiglio era l’obiettivo di un rastrellamento. Non era il fatto che avesse un rifugio che si dimostrava pericoloso ma mentre fuori infuriava la follia, non riusciva a rassegnarsi a morire per mano di un soldato lui civile e cercava di calarsi in una palestra memore di aver dimenticato l’alpinismo …

Nel secondo ero stato invitato alla festa di incoronazione di un re africano, la terra d’africa nel sogno aveva un cielo altissimo nel sogno era tutta ornata da ori cesellati in diamanti come luci natalizie alte come torri.

L’autore era indeciso se comprare con 130 di una qualche moneta coniata un po’ da tutte le Zecche un apparecchio stereo.  Doveva comprare tre regali, ma induceva nell’acquisto di uno stereo, la sua soddisfazione non era del tutto condivisa. (da chi?) Al risveglio discuteva in modo immaginario con un dottor Freud (personaggio inventato in questo caso) stranamente di buon umore di antropologia, raffigurazioni antropologiche in particolare.

La domanda che mai non mi sarebbe passata in mente in stato normale, ma solo dopo un risveglio da un incubo era se la modesta soddisfazione psicologica di una relativa guarigione unita alla reazione biochimiche nel mio cervello senza farmaco era la seguente: è l’inferno questo?

O peggio, come la ricerca di una giustificazione o una domanda proibita o come materiale con cui dovevo elaborare un rimosso (quale la scena di un trauma),la domanda era: siamo stupidi?

La precisazione seguente e d’obbligo per giustificare almeno questo insensato testo, Se l’astinenza da farmaco e le abnormi reazioni agli psicofarmaci diversi e provati durante una lunga malattia, se lo stato di soddisfazione psicologica di un attimo di vita meno orrida. Se Anche uno smisurato dolore in convalescenza. E ancora.

Se tutto questo è la causa di questo libro. Inoltre se un’euforia ingiustificato  o maniacale per lo scrivere e gli abusi di tabacco, quasi 200.000 sigarette in dieci anni e la dipendenza conseguente, inoltre ero scampato per miracolo alla morte  e non sapevo per quanto,  se tutto questo è la causa di questo libro perché lo scritto? Perché l’ho fatto, a questa domanda rispondo; volevo lasciare le parti di me spesso represse chimicamente si prendessero una boccata d’aria, suonassero come un violoncello la tastiere del mia macchina da scrivere o computer, insomma volevo fare qualcosa di divertente una volta tanto.

Era spesso preso scrivendo questi raggomitolanti ragionamenti dal dubbio di essere pazzo a maggior accorgendomi che avevo verbalizzato rapide sessioni dialettiche tra me e me. Ma ora v’era (immagini che si susseguivano dialetticamente e anche logicamente) v’era in me il piacere emotivo di una ritrovata pace scrivendo  lasciavo le mani libere, mentre l’emozione poteva andare sotto il titolo di: “La dimensione del vivere nella nevrosi e parafrenie”.

Seppure ormai non c’era più in me una dimensione della vita irriflessiva e non avrei mai più corso nudo per la spiaggia di qualche paradiso tropicale anche dietro ad un vetro dove vedevo deformata la mia vita ero nella vita ancora, con però un senso generale di stupidaggine.

Cosa che non avrebbe avuto nessunissima importanza se intorno a lui non vi fossero stati poche altre cose che attiravano la sua attenzione.

Più in fondo nella valle c’era il palazzo di Giustizia, e pochi altri palazzi pubblici, l’Ospedale e i Servi Sociali, la Scuola, L’amministrazione, La Federazione Sportiva, La Radio e la Televisione, Le Poste, I Telefoni, L’Esercito e la Polizia e I Servizi Segreti, anche istituzioni private come La associazione degli industriali e dei commercianti, Gli editori le biblioteche i librai e Il circolo dei lettori e la sua stretta e stringata domanda era: sono stupidi costoro?

Il violino eseguiva una splendida aria  scritta solo per questo strumento, un “divertimento” mentre tutti gli artisti si prestavano all’illusione, un'altra faccia della Luna si mostrava, un'altra domanda su cosa fosse l’illusione stessa ed in sé era in nessuno, ovunque, i tutti,  e provava ribrezzo all’idea che musica cessasse mostrando il vero volto delle cose.

Si tratta del fenomeno detto di irrealtà, cosa che porto a mia giustificazione medica ma in modo più concreto mi chiedevo, chi potevo contattar per fare leggere questo libro, sapendo che solo una copia da sempre sarebbe stata recapitata al mio migliore amico e una secondo non sarei riuscito anche gratis, dedica e rilegatura ad inviare a nessuno per leggerla. Mi pareva strano ma sapevo l’obbiezione:

“Non ho tempo!”

 Nel fondo della valle, l’avvocato o il giudice o nell’ospedale il medico, o via per le due o cento professioni mi sarebbe stato risposto:

“Non ho tempo!”

Non sono stupidi, sia chiaro, hanno studiato tanto e più di me, io risulto più stupido di loro spesso, e allora … Io risulto poco piacevole come un foruncolo sul naso, anche agli editori li metto in difficoltà con il mio strano look mentale.

Chi dovrebbe comprare un mio libro? non i lettori perché non hanno tempo infatti o sono  i professionisti che non hanno tempo appunto o i grandi lettori che non hanno tempo punto?Per grandi lettori si intende persone individuati solo per la quantità di libri letti o meglio acquistati in un anno. I grandi lettori non hanno tempo perché non esistono, infatti secondo il motto: “se scrivi non vivi, se vivi non scrivono” essi non esistono punto.

E’ noto che o si legge e si legge tanto e si è quindi grandi lettori o non si compra che un libro per regalarlo. Io sono un grande lettore di libri a prestito in biblioteca; non alimento il mercato ne il mercato mi alimenta.

A questo punto, avendo già irritato la sensibilità dal lettore passando da una ragazza che porta a passeggio il cane, che non si accorge che è scomparso il cane e si ritrova in compagnia di due uomini e tutti e tre non si erano neanche accorti della scomparsa della Luna rubata passando per una seria di divagazioni.

Però solo un’altra considerazione; senza nessuna difesa le stoccata arriva a segno. Spesso a non aver tempo si perde la partita della vita! Si chiede una giustizia per la salvaguardia del Ospedale, dalla caserma, del asilo nido, ma nessuno a tempo, persone intelligenti non hanno tempo che abbiano tempo o e che tutti abbiano tempo e la possibilità di spenderlo o metterlo nella banca del tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una Luna mancante, di questo devo parlare, rubata. Forse, adesso la Luna aveva freddo dove il ladro l’aveva portata, sottratta alla luce del sole, poteva amare qualcun altro, là dove andata certo era ancora viva. Come se la ragazza detta polipo liscio fosse ancora nella sua bellezza di una Luna inesistente e lei infatti splendeva, illuminava la finestra di un palazzo e i suoi due amici, un cavallo da tiro e un grosso topo.

Tutti e tre erano in modo di leggero sorriso sorpresi di trovarsi nel centro di una città e che questa splendesse.  Per il riflesso del vetro la città era accesa, e questi tre si avvicinarono al palazzo con la finestra accesa dal fascino della incoscienza di una donna, era una finestra ed una porta insieme, di una grande voliera un grattacielo.

Aperta la porta la ragazza si trovò di fronte ad un gufo impagliato, lei si stupì, se era un simbolo sembrava permearlo ad provocarle un strano senso di straniamento, se invece per la scena in sé, o per essere un semplice oggetto neutro ne era contagiata, e rimase in lei solo la voglia di un caffè.

Che per altro era una bevanda di origine sudamericana ed il gufo delle foreste europee, il medioevo, e il Settecento, le apparsero improvvisamente come aria, semplicemente azzurra e paradossalmente incolore.

Un una macchia scura dalla parete  che era proprio il gufo imbalsamato si staccò in volo e scese fino a lei e le si presentò dicendo:

 “Vuole provare il volo d’interni?”

Avrebbe voluto trovare un modo convincente per qualunque risposta avesse dato. Accettare di volare in una stanza le pareva bizzarro, un’idea bislacca quasi, ma l’aveva  già interessata come sarebbero stato questo volo con ali da “casa” fatte per voli nelle stanze.

Attrezzo volante adatto a spazi angusti di vani domestici,  tipologia classe zanzara che ronza e non impazzisce o genere un papera nella galleria del vento. Ancora ali che avremmo potuto avere un calabrone. Accettò con una voce che se ne volò via con un sì sibilante.

Era bella con le ali, un bellezza con le ali.  Se ne stava li sospesa in aria senza sapere bene cosa dovesse fare, se provare a salire la parete alta torre interna che dava ai piani e alle stanze superiori in volo. Avrebbe voluto sapere cosa pensa un cigno per volare. Senza un pensiero veloce né risultava un volo meccanico per essere da fata doveva essere veloce, ( volare veloce come una caduta) sentiva l’aria scorrerle addosso salendo la torre ed entrata nella stanza si fermò.

 Stette a vedere un tappeto rosso che a prima le parve inutile e pomposo. Volando a bassa quota la stoffa pareva animarsi, diventare più soffice e porosa, ma sorvolandola diventava calda luce di accecante colore. Un soldatino come nel ovatta era abbandonato in una pozzanghera di cotone, lasciandolo si avviò in un'altra stanza, ma il suo volo divenne circolare intorno ad una lampada da comodino accesa che proiettavano le ombre delle sue ali sulle pareti e sempre più veloce diventava una falena.

Un rubinetto aperto e l’acqua che scorre quando si hanno le ali sembra nel silenzio di volare sopra ad una cascata. Anche se avesse voluto essere un gabbiano lei desiderava di più il mare. Riprese a salire il torrione del palazzo, arrivò al all’apice della costruzione, e si ritrovò nell’ambiente da cui proveniva, la città.

In quella notte che sembrava essersi chiusa più dura del ricordo del suo trauma ma questa volta lei con le ali stava appollaiata, pensando che se tale era il dirsi volare, lei rimpiangeva le sue ali di pipistrello nella tempesta, non abituandosi a stare in una voliera, in  modo di chi sta messo con sulle spalle ad un muro.

 Un prototipo e neppure un brevetto erano quelle ali da interni ancora tutto da perfezionare e produrre in scala industriale. Ridiscese volando il torrione provando a vedere se c’erano scale, ma sentiva solo aria, aria che diventava, il gufo, il caffè sudamericano, il medioevo europeo, il Settecento che non finiva mai, mai.

 Rispose garbatamente ad un simbolo, un Gufo, un’allucinazione dicendo riguardo al volo:

“Sì, è stato bello!”

Con i suoi due amici, uscì dal palazzo che aveva solo una porta illuminata come una finestra.

Riguardo al ladro. Io non lo consideravo un nemico personale, ma del resto, evocando in me le mie stesse paura più profonde, lo costruivo come il nemico perfetto. Ci sono cose più difficile da realizzare della perfezione ad esempio le coincidenze, certi eventi si realizzano se non in spiacevoli incidenti, la calcolata cretineria del ladro e la sua indigenza per altro del tutto pretestuosa.

Sia che in tal guisa capivo che accidentalmente andavo a sbattere in un guaio a sbattere in un qualcosa che si metteva in tasca anche me, il costume era a sacco marinaio,  e dietro questo odiosa coincidenza c’era la sua furbizia malevola.

Che cosa c’è di più difficile di liberarsi dalla stretta di un ladro, per giunta genialmente idiota? Questo il mio caso pietoso. Cosa altro avrebbe portato via alla ragazza, che deposte le ali cercava di trovare una strada in città, una possibile uscita, tra le tante coincidenze negative?

Perché c’erano tante strade tra i palazzi della città, e Liscia, come era soprannominata, se le immaginava correre come possibili solo in parte per lei si diramavano verso pianure e colline ma senza “uscita” poiché ben collegate ai paesi periferici, e quindi parte della medesima città chiusa.

 Anche le rotte aeree passavano per  partenze aeroportuali, elisoccorso, basi militari, disegni precisi senza fughe, intercettazione oggetti non identificati, volo senza motore come in un sacchetto impermeabile all’esterno.

Se per tutti  muoversi tra i continenti e sentirsi a casa in una stessa estesa città, volare e prendere il caffè in poche ore ovunque, se  si poteva dire una cosa valeva l’altra, la gente è tutta uguale dappertutto, era cosa però banale senza piacere. Non era possibile ci fosse dell’altro come continuazione del mondo e del cielo, in quanto qualunque altra forma di viaggio era lasciata alla strana distribuzione di geni, idioti, guerrafondai, teste di cuoi e di culo, che l’esercito si ostinava a formare per i viaggi interstellari.

Questo sacchetto aveva chiaramente una portineria, guardiola del mondo posta a qualche chilometro d’altezza presa per presa sarebbe starebbe stato un bel buco nel sacchetto. Dalla portineria arrivavano nuvole quadrate o tonte, belle o brutte. Il compito è svolto solo da due intercettori e cosa si potrebbe mettere a limite e difesa nello spazio che due astronavi? Binocoli, no.

La ragazza ricordava il Settecento per i viaggi senza il vento in poppa, e per le attese con un traino di cavalli normali da Genova a Venezia e i cambi di cavalli alle stazioni di posta, da Londra a Parigi lunghe traversate a vela. Ma lei sapeva che il viaggio incominciava 15 miliardi di anni prima,  e la sua tristezza la datava 20 o 25 miliardi di anni. Timidezza che le sembrava eterna.

Per curiosità invitò il cavallo da tiro a prendere con lei e il topo qualcosa di schifoso in un negozio, infatti lì v’era un negozio con una lunga insegna:

“Inumano, tortura, violenza, schiavitù, malattia, dolore …”

Era il nome del negozio dove i tre comprarono un orologio con diverse funzioni. Sul quadrante del quale comparivano in sequenza le parole già lette, e un poco angosciati e preoccupanti ma tutto finiva lì. E’ stato quando la ragazza a inserito la funzione rallentatore al orologio che le parole che leggevano divennero rallentate a tal punto che potevano sentirsi tutti e tre feriti da consonanti troppo lunghe fino a completare la parola dolore. Alla parola d o l o r e completata nuove se ne formabili decisamente di schifose.

A volte, le era sembrato che la sua vita non avesse gli stessi tempi degli altri, che la vita fosse breve, che la vita fosse lunga in certi momenti, ma non aveva mai pensato di trovarsi in una dimensione senza un giorno, un anno, un secolo, insomma per lei poteva essere qualunque momento della storia. Aveva una specie di sindrome da orologio fermo.

Cosi decise di inserire la funzione “avanzamento veloce” nell’orologio e parole schifose compresse e schiacciate tipo dr fr se dt bl ecc rapide si esaurirono.

Il topo, l’uomo che mangiava topi, presi tutto quello schifo, lo mise in un cestino della spazzatura, mentre l’uomo con la tutto barba e capelli, spiegò alla ragazza, che dopo l’inverno ci sarebbe stata una buona estate, avrebbero preso il sole al mattino, in una giornata di ventiquattro ore e ripresero, era il tempo una menzogna forse …

Rispetto a quello che voleva sapere la ragazza, una volta che ebbe chiaro che la situazione data era incontrare qualcuno che rompesse il circo della sua ignoranza chiedendogli: “perché sono qui?” e rispondendosi da se capì che cercava una persona particolare. Era una visione classica del racconto, un modo però comune di pensare di organizzare la percezione del proprio destino come un film che inizia e si presentano i personaggi, il protagonista e un fatto che lo riguarda con una soluzione che sia buona o cattiva spiega anche le cose più assurde.

Il desiderio di capire la sua presenza in un mondo caotico, selvaggio, tanto alienante da essere impensabile, la spinse a consultare un mago sempre accompagnata dai suoi amici, rimasti forse nella storia per avere un qualche compito ancora misterioso. “La salute migliorerà dopo questo periodo un poco giù di tono, ma ci saranno dei momenti di ripresa solo dopo due mesi, il lavoro dovrebbe darti delle buone soddisfazione, non un successo eclatante, una soddisfazione che potrai condividere con gli altri solo verso settembre o l’anno prossimo” il mago ancora parlava quando La liscia lo interruppe e gli chiese:

“Ma le stelle cosa dicono riguardo al futuro remoto, quando tutto sarà buio, quando le stelle non ci saranno più il futuro …”

 Il mago senza predire altro le mostrò il futuro chiuso come un ghiaccio perenne, dentro ad un freddo che nessuno mai avrebbe potuto innalzare di nulla e l’evaporazione, era la chiave di tutto anche i neri evaporano …

Io , disse la ragazza, ero certa che le forze dell’universo per quanto maestose non fossero intelligenti e sensibili come noi, non conoscessero l’amore umano e fossero indegni e per la loro totalità da considerare zero, insomma quel novanta percento di energia e materia mancante nell’universo doveva essere una massa gelatinosa, inerte se no perché ci sopportava?

Forse, la ragazza ricordò che avevo pensato ma se l’era dimenticato che ci stavamo dando da fare per farci notare dai malvagi nell’universo, non è vero?

Ma è il momento di dimenticarmi chi io sia, chi io sia stato se sempre solo o in compagnia, La liscia, il Barba e il topo, io cerco di non essere mai esistito, torniamo a loro, la ragazza ed una festa. Loro stavano davanti ad una porta dietro la quale  c’era quello che fino qui si voleva, gli invitati i protagonisti del libro “Il classico della Luna”.

Già il titolo lo si annunciava perché il “Classico della Luna” è la rappresentazione di personaggi,  presentati in modo classico e concernenti la Luna. Titolo non tradotto e adottato nella versione in lingua italiana anche se anche all’autore sfugge il senso.

 Mostrare gli invitati dentro a questo se si vuole romanzo richiederebbe più tempo e un migliore umore e ironia, per assurdo passatemi sotto questo titolo incomprensibile di narrare le diversificate e interessanti figure degli invitati.

La ragazza aveva come un ricordo o un trauma che non riaffiorava che non riusciva a rendere chiaro messo dentro le pagine di un libro di Bulgakov. Era a disagio come se la carta dei diritti universali per qualche ragione non vigesse in quel parallelepipedo dove entrando c’era la festa. A farle gli onori di casa venne una signorina con delle scarpette bianche, la gonna ampia dove fili di cotone colorato si intrecciavano e giravano vorticosamente.

Il bustino si apriva in una scollatura tra i seni un neo su di un lungo collo  e una testa incipriata. Tornata nel Settecento grazie ad un'altra donna avvenente, splendida, donna, magnificamente e incomparabilmente del Settecento, vera e presente, viva in pieno. Liscia si inchinò portando il braccio destro piegato sul lato con l’avambraccio delicato in posa plastica sul lato sinistro. La mano di Liscia appesa ad un invisibile filo. La dama del Settecento disse:

“Vi sarete accorti che questa sera abbiamo sospeso ogni diritto, secondo il tema della festa siamo tutti uguali ci figuriamo ognuno nella sua natura. Non essendo propriamente e per tutto uguali risulteremo diversi, anche assai.”

La dama del Settecentesca li precedette nella sala da ballo, La Liscia, il Barba e Topo che messi lì incontrarono assai diversi personaggi, ma non se ne resero ben conto presi dal frenetico ballo erano sobbalzati di qua e di là, tra un piede di un campione di basket numero sessantuno, la testa piena di barba e capelli del Barba volava e rimbalzava, un topo di laboratorio percorreva tragitti impossibile per qualunque labirinto, il pneumatico che percorse la prima volta le strade di marte era al bancone a bere per dimenticare raccontando dei suoi viaggi, c’era un sacco gente anche dello spettacolo, come lei sapeva in fondo un poco di appartenere.

 

 

 

 

 

Era il libro ormai arrivato al capolinea dove mai poteva arrivare se non finire nella normalità. Era questa la realtà? La verità … Quando le danze cessarono tutti presero una maschera, simili le une alle altre, tanti visi di nuovo anonimi e si allontanarono, tranne la ragazza che si chiamava Conchiglia, la donna con l’aspetto di dama del Settecento, che si unì a loro.

Poterono uscire a guardare la Luna, ma era stata rubato. Donna fatale per certi versi la dama si ritrovò a fare un monologo sulla sua vita, in abiti assai simili a quelli che doveva aver indossato Maria Antonietta in occasioni particolari e incoronazioni, iniziò cosi il suo racconto parlando della dogana di Napoli e dei versi che li scriveva guardando attraccare le navi con dolci parole di rimpianto:

“Tanti qui portano chiusi in contenitori metallici, merci; oh porto! specchio mondo nel mare”

E anche narrava quando vide passare per le vie alpini pastori:

“ senza un gregge, senza un apparente scopo si muovono.”

Ma il suo parlare andava ben oltre. Ella la vita di giovinetta a Corte e poi per chiudere questo aspetto della sua vita:

“Come scacchi che hanno messe di  potenza ennesima di due, lo duca mio aveva due vice e anche essi per gerarchia due e per gerarchia tanti capi faceva per gerarchia, sovra nomi, tanti nomi.”

Spesso si rivolgeva a Liscia ricordando con un tono complice, cercando con la voce e le parole di riportare Liscia a quel secolo diciottesimo:

“Che belle pellicce di ermellino arrivavano dalla Russia, tanto saprai bene anche tu che lavoro fatto con precisione e abilità. Ma sembra che i ricordi a volte sfuggono come se temuti, quasi che sia questione non di velocità di chi cade da rupe, ma di lentezza di rivivere in poco più di cinque o sei secondi anni e anni passati. Ti ricordi le cesellature degli ori, le navi che arrivavano dalla Cina, quel continente nuovo e tutto da scoprire, Le Americhe. Quante novità allora,  i violini appena si riconoscono suonati essi stessi ancora.”

Ma Liscia sfuggiva lo sguardo e sembrava che ricordasse sono con le mani chiuse, chiusi gli occhi, era arrabbiata e non voleva nulla che silenzio. E allora Conchiglia si rivolgeva ora a Barba ora al Mangiatore di topi e La Conchiglia rivolgendo la parola ora al uomo ora all’altro con sorriso:

“La scienza di quel tempo, superato l’ostracismo medievale, anche se l’opposizione contro il materialismo era chiara e decisa, diventata la grande speranza contro le malattie, la miseria, le oppressioni”

E qui pacata e piena la voce il Barba si inseriva dicendo: “I grandi professori delle università libere, la cerchia di dotti, i laboratori privati e militari le tecniche o le industrie farmaceutiche, la mongolfiera”

Lei conchiglia:

“Certo!”

La città che loro avevano appena abbandonata per un strada lontana era stata rubata, come una scena del teatro Amleto ero scomparso per sempre. Avevo preso a seguire la ragazza la seguivo ora rivolgendole la mia attenzione più pressante, ora cercando di capire con forza cosa fosse successo della Luna che non v’era più, del cane rapito, e ora della città trafugata, dell’identità di questo ladro perfetto e del bottino ormai cospicuo intorno a ciò mi interrogavo.

Non trovavo che una sola risposta a tutto ciò, un sola regola regnava in questo, c’era il piacere della destrezza, un convinzione duratura, un sofisticato meccanismo di illusionismo, la realtà non aveva alcun peso. Liscia vedeva avvicinarsi persone a lei, a Conchiglia a Mangiatore. Liscia si vide presto attorniata da persone dai visi identici passare sempre veloci, sempre ravvicinati, perdendo il contatto con gli altri: vedeva Conchiglia sola e non riusciva a raggiungerla nuotando in quella folla aveva perso il contatto anche con Barba e Mangiatore. Pensava, che nulla era stato strano  come ora nella sua vita, non capiva più il senso di quel procedere tra visi anonimi e ripetitivi come fosse un non senso, una bislacca teoria sulla vita sempre pronta ad essere sostituita da una più precaria, malferma e inutile.

Ormai non vera che cercare di capire se fosse necessario avere delle regole, se senza nessun controllo, punizione o premio nel senso non di una qualche soluzione sociale che lei neppure intravedeva, ma solo, perché dire che vi era un senso dove lei non lo trovava più.

Era tanto disorientata che non riusciva più a scorgere tra la folla che scemava Conchiglia e i due loro amici. Io mi ritrovai spinto a lasciare il luogo ove ero per scendere lentamente o meglio ad avvicinarmi solo e impercettibile a Liscia che ora era stretta da un senso di malessere crescente per la solitudine che cercava invano i noti visi.

In tutto questo Molière, il funzionario che è detto Molière responsabile dell’Ufficio Cultura stava nel suo ufficio quasi inoperoso, la segretaria temendo un rimbrotto cestinava tutti i manoscritti che le arrivavano. L’intero ufficio fino al gradi più bassi procedeva da se ormai il pensiero di Molière era stato recepito e non occorrevano che direttive straordinarie, e il timore di un rimbrotto spingevano tutti a cancellare, correggere, limare all’osso.

“Più fantasia, spingere più sul pedale dell’acceleratore, remare a tutta forza, in questo libro non c’è azione!”

Disse Molière, poi stette un poco pensoso soppesando le due copie del Classico della Luna. Presa l’originale la diede alla segretaria e la copia corrette la tenne sulla scrivania.

“Giù, in archivio!”

Disse rivolto alla segretaria che stupita rispose:

“Giù?”

“Sì, questa copia mandatela di sotto!”

 Terminò di dire Molière e continuò a osservare quello che doveva considerarsi il suo lavoro, il nulla.

Io percepivo che liscia sentisse il peso del lungo viaggio, del primo incontro al parco con Barba e Mangiatore, il suo cane, un ragazza ed una festa, un strano tremore delle ali di un pipistrello che attraversa la Manica in tempesta.

Lei certo non se l’aspettava. Il suo cane le venne incontro, festoso dalla parte dove era comparso il ladro che muovendosi nell’aria si sarebbe avvicinato oltre rapendoli tutte e quattro ed io ero lì vicino ma il ladro si fermò.

La ragazza ricordò come se lo avesse sempre ricordato di avere un cane, come se questo fosse il parco vi si incammino nella parte sbagliata sentiva la fatica, la resistenza, voleva formulare una domanda che le spiegassero cosa fosse successo, cosa stesse succedendo e andava nella direzione del ladro, della morte. Stava cadendo ormai nelle braccia del ladro. Ma scorse tre figura nel parco, io temevo che si fosse avvicinata troppo al ladro, esitai pavidamente, ma lei arrivò presso Conchiglia, Barba, Mangiatore. Conchiglia era stesa sul prato con gli occhi chiusa con il suo Settecento chiuso in un braccio piegato sul petto, con le purezze trasparenti di casati, di miti, di strane invenzioni e di subitanei progressi, morta e c’era Barba che avrebbe voluto prendere quelle ali da interni morto e c’era Mangiatore esperto di burattini di teatrino le poche cose che nella mia testa mi reggano. Il grande furto era compiuto e riferendomi alla Sacra Bibbia l’ora del ladro era giunta.

Liscia si accorse che ne frattempo erano morti i suoi amici, e il Ladro si avvicinava sopra più, lei si chiese: chi li aveva rubati conserva qualcosa di loro? Le ali del Ladro erano su di lei e lei poteva scorgere nel buio il viso e le espressioni raffinate di Conchiglia, e ali e le idee dei suoi amici. Forse, bastò che io riflettessi nel Ladro le notti a vegliare la Luna, le lunghe traversate verso Giove e che Liscia fosse arrivata fino a lì, per scongiurare il peggio, per smascherare il Ladro e conservarle la vita. Cosi Liscia poté riavere quello che il ladro aveva tolto, la Luna, il Settecento, i suoi amici e un cane, credo che queste cose potessero essere riportate.

Io sono solo un serpa, un portatore per chi va a fare scalate. Per la verità, conosco molti percorsi e spesso sono in viaggio. Come diceva l’attore Albero Sordi, Roma vista dal alto è impressionate. Liscia non so dove sia, non voglio sapere è lontana. Non voglio più sapere niente di importante. 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

LE COORDINATE DELL’ESSERE                                 

L’EMOZIONE                                                                   

IL DIVERTIMENTO                                                        

 

 

 

IL TESTO QUI PRESENTATO E' OPERA DI AMULTIMEDIARTE, PSEUDONIMO DELL'AUTORE DEL SITO. IL TESTO CONTIENE ANCORA MOLTI ERRORI, SE VI SARA' UNA DIVERSA COLLOCAZIONE A QUESTA SARANNO POSSIBILI CORREZIONI. HO CERCATO DI FARE UN OMAGGIO E UNA CITAZIONE DEL LIBRO DI ORWELL "1984" E DEL FILM A QUESTO DEDICATO. VI E' ANCHE UNA CITAZIONE DEL FILM "THE WALL" DEI PINK FLOYD. SE RISULTASSERO LE CITAZIONI NON CONSENTITE SARANNO RIMOSSE. IL TESTO "IL CLASSICO DELLA LUNA" QUI PUBBLICATO E' PER LA SOLA LETTURA. OGNI RIFERIMENTO A PERSONA O FATTO REALI E' PURAMENTE CASUALE.

DOMENICO MERLI

amultimediarte@email.it

 

 

altri siti di Domenico Merli

 

 Altri siti di Domenico Merli amultimediarte  agonia  amultibook  amultipage  domenicomerli 

              ildome  ilmiocanzoniere   biblioamulti

facebook twitter youtube google+ google+(2) Autore