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Sono sul punto di partire per andare in una nuova caserma dove troverò la dura disciplina ad aspettarmi, senza che io lo sappia e ne abbia paura, vivo i miei giorni, ma qualcosa già mi fa presagire nella nodosità di questo viale detto l’arruolamento; un arruolamento a sorpresa. Il mio è stato un improvviso cambiamento.

L’ambulanza ha sterzato decisa verso di me, la frenata. Ed io fui preso e caricato o meglio arruolato tra i pazienti. Sono Arrivato in caserma e mi dicono che ho una denuncia per evoluzione impropria. Cercò allora L’origine della specie di Darwin, nella mia sacca. Non trovo nemmeno questo e a memoria cerco di ricostruire la pagina che m’interessa: le emozioni sono manifestazioni espressive e comportamentali atte all’evoluzione ed all’adattamento. Non riesco a scaricarlo Darwin dal Web. Litigo e me la prendo per telefono. Sono cosi artificiale con stampelle e iPad, respiro tecnologia popolare.

Mi comunicano che sono stato chiamato allo psicodramma terapeutico. Mi accomodo in platea, vado in scena ugualmente. Non un fatto specifico, un litigio, una delusione ma tutta la mia vita. L’ira del bambino, la pubertà, l’adolescenza. Tanto vale dirlo: si tratta di un’aggressione senza oggetto, contro la logica stessa dell’aggressione; il problema.

         L’emozione che mi si presentano, ira, dolore, paura; indistinte, primitive, destrutturate, emozioni che sono certo il frutto di un disadattamento da uno stato di salute o qualcosa più compromettente di una malattia. Qualcosa come una malattia, almeno.

Pochi istanti di speranza prima di essere arruolato, l’idea della cura era di felice euforia per l’evento, speravo, poi tristezza e sconforto. Dopo in caserma mi sentivo giù di morale e guardavo con i miei compagni la televisione ed avevano facce abbattute; tutto in me sembrava essere diventato latte cagliato, e se cercavo un poco di allegrezza mi accorgevo che intorno a me, tra i pigiami stropicciati, le sigarette che non bastavano mai, non c’era che ira, sorda, muta cieca per la condizione umana. La televisione non era che un abile trucco per martellare questa rabbia, ma troppo per me. Io in camerata mi sento di avere ancora un poco di allegria che nessuno viene a cercare. Dentro c’era un buco inaccessibile anche alla struttura, alla vita, al cambiamento che porto e riporto dalla fermata del tram a casa, e questo senza nessunissima speranza di mutamento.

                  

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Mi trovavo attento e pronto a giudicarmi, ispirato. L’ispirazione in sé non so cosa sia, ero in uno stato d’animo nel quale sentivo l'oscuro senso definibile come “essere ispirato”. Era uno stato non transitorio come si può pensare, ma costante nei giorni tanto da farmi sentire la tirannia di esso su di me. Poco diverso dall’essere preoccupato di non diventare (artista), più vaso da svuotare, un dovere. Tanto stare sulle spine per quell’arte che mi faceva soffrire e non potevo portarla in caserma; la dovevo lasciare al deposito bagagli, pigiata, piegare la mia “spada” che consegnavo con la prospettiva personale. L’arte per me era una interpretazione linguistica della realtà; segni, disegni qualsiasi cosa comunicativa la prendevo e l’usavo, usavo e avrei usato qualsiasi segno, punto, numero, ci facevo qualcosa, perché mi riusciva e io insistevo... Se leggevo qualcosa di altri, magari di altre epoche, sapevo che non dovevo copiare, ne fare nulla di simile, prendevo lo stile, e forse un poco del tocco creativo, vedevo come il lavoro del soggetto, l’artista riorganizzava la storia della schiavitù (essere soggetti del tempo e della storia) mettendo la propria persona al servizio di tutti dicendo; cosi è per me.

Imponeva qualcosa (cosi è per me) anche il più modesto se stesso possibile e questo coraggio io pavido, l’avevo. Questo slittamento al cosi è, a questa imposizione del io, da un sono importante nel gruppo (nella schiavitù) lo preferivo, isolandomi come artista. Il soggettivismo circoscritto del narratore o dell’artista del; "cosi è per me" contro un generico pensiero;  è cosa non da poco, in questo modo l’artista fa in questo modo fuori il mondo (storia, tempo...) si decontestualizza. Per la mia vita era una scelta auspicabile. Lasciavo nel deposito bagagli la mia soggettività d’artista (di persona estrapolata dal mercato) a guisa di spada ponevo le armi delle lettere e del disegno, e tutte le interpretazioni della realtà che avevo fatto senza copiare dalla Letteratura ma create, cercando di non fare quello che era stato fatto, e andavo in caserma per occuparmi di quelle inferenze dette quotidiane.

Ragionamenti e interpretazioni sulle mie relazionali sociali per cui avevo un lavoro, relazioni dette reali e attuali (per giunta nel presente le vedevo in faccia) e non potevo chiamare ‘l’ispirazione o la creatività a mio soccorso. Era sempre un’interpretazione anche compilare moduli e rispondere al telefono, una spada allegoricamente concreta che richiedeva una recitazione, sleale a volte, imitativa si copiava insomma come battute a memoria, la scelta di quale fosse la risposta migliore s’imparava col mestiere anche adesso che si erano messi in testa di fare un rifugio antiatomico. In caserma non si poteva dire ci fosse arte, poiché l’ispirazione è percorrere una nuova via, c’è chi lo vede il sentire e chi lo vede e grazie alla fortuna può decidere di partire solo, solo seguendo un sogno, ma costui sente e si accorge che il sentiero c’è e lo crea camminando, i riscontri li trova. L’ispirazione fulmine è un valore sopravvalutato, è solo un dato grezzo, che dallo sguardo va all’oggetto e torna con un’idea agli occhi, ma l’ispirazione è vedere una mutazione della realtà in una possibile, ed io lo vedo ogni volta qualcosa di nuovo, un possibile racconto alternativo, tra diversi immaginabili come mettere il risultato all’equazione dell’arte e non della matematica se questa ha risultati immutabile nell’arte sono sempre in trasformazione. 

La costruzione di un rifugio atomico richiedeva un primo passo, una prima separazione (tra arte e vita, tra bellezza e luce, tra tenebra e vita) doveva precisare i confini tra interno ed esterno per il rifugio. Mi ero appena seduto che venni chiamato dall’ispettore a colloquio, si trattava di definire un linguaggio comune e di analizzarlo nei dettagli ponendo l’equivalenza tra il mio linguaggio è me, il ricevente, o la fonte e cercare di distinguere tra la lingua appreso comune a tutti ed il gesto creativo di un verso poetico. Esco dall’ufficio e mi reco nel sottoscala dove costruiranno il rifugio antiatomico, mi siedo con le gambe incrociate e medito su cosa sia interno ed esterno, raffigurandomi i disastri atomici; mentre tutta la terra scintilla simile a fuochi d’artificio, i gas, i virus, i cromosomi impazzito il dna, e penso che io dovrei fare in quel posto dove mi trovo un rifugio dolce, caldo, accogliente per il direttore che possa ristorarsi prima di prendere il volo con la sua veloce astronave per nuovi mondo e universi... era questo l’arte? Mi chiesi se mi sentissi dentro di me gli organi, o la pelle. Non c’era più niente, né pancia ed intestini, né cuore e polmoni, tutto il mio corpo a pezzi galleggiava ed avevo impegni, avevo da scrivere da disegnare, ero uscito dalla caserma, presa la mia spada, dovevo seguire il mio sentiero, che era mio e nuovo. Senza copiare, stanco, asfissiato da un lavoro che non era arte ed io dell'arte cercavo di fare, non avevo più soldi per bere una birra al bar, e avevo trovato una via senza copiare leggevo, prendevo lo stile a volte, è mi inventavo qualcosa da scrivere o un disegno, che pensavo non aveva fatto o scritto nessun’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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        L’emozione ha una tendenza all’azione anche se mi pare che non sempre sia cosi. La tendenza all’azione è l’impulso a tradurre uno stato emotivo in un comportamento manifesto. Lo schema comportamentale si presume appreso dall’esperienza, da modelli culturali. Se ci arrabbiassimo, difficilmente, regaleremmo una rosa profumata a chi ha provocato la nostra rabbia, solo seguendo gli altri come l’hanno mostrato “imitando” se cosi fosse forse, regaleremmo una rosa in questo contesto.

Le emozioni più propriamente sono valutazioni di una situazione; giudico una cosa scostante, piacevole, dolorosa, esaltante si diventa emozionati e quindi si prova un’emozione. Posto che l’utero sia il primo ambiente della vita, se ne ha un’informazione contestuale, dovuta all’ambiente del soggetto che prova un’emozione contestuale. Contestuale sta per intrinseca, dove noi poniamo il mondo come oggettivo, in qualche modo lo è intrinsecamente. O per converso, non lo è quasi intrinsecamente.

I veri cambiamenti degli individui che sono mari dentro torri.   Le difese psicologiche e le resistenze hanno quasi sempre la meglio. I mutamenti sono vissuti come devastanti. Questo testo è stato scritto tre o quattro anni fa, e corretto solo ogni nel 2011 estate. Si concludeva con una parte dedicata all’aggressività. O meglio all’incapacità emotiva per alcuni di provare emozioni forti strutturate. Sono note utili ma le tralascio, anche se in questi anni mi sono accorto che la capacità di strutturazione affettiva è via verso una relativa sanità. Presentate nel modo in cui le avevo presente non erano per nulla organizzate.

Io mi spiego questa mia solitaria vita come una compensazione, rispetto ad una malattia che mi avrebbe distrutto anche questo il mio limitato potenziale di adattamento mentale. Con questo colorita e selvaggia riorganizzazione riesco a gestire un minimo la realtà. E’ stata via per arrivare ad una approssimata stabilizzazione. In passaggio è sempre attraverso un cambiamento. Credo, sempre. Anche piccolo ma un cambiamento di vita e psicologico. La resistenza al cambiamento è sempre Il repellente, Lo schifo. A volte ancora più dura è la resistenza che s’incontra. Io spesso getto la colpa della stasi nel dolore sul mondo ed esso rigetta su me la colpa.

Sono chiuso in me, non ho che un’immagine transitoria e mai definitiva, ora con le spalle chiuse a nascondere le ali, ora serro i pugni per non mostrare che mi sono cresciute le unghie. Davanti ad una porta chiusa, snervante e inutile attesa. Rileggendo queste pagine e correggendole mi rendo conto che il lavoro fatto, dopo, gli scritti venuti dopo, hanno sviluppato i temi di questo povero libretto. Non c’è stato un grande cambiamento, proprio non c’è una mutazione ulteriore in me da quando mi sono sentito sopravvissuto a qualcosa. Alla mia stessa vita. Perché la storia è un bestiario del cambiamento dove nel guardaroba delle immagini tutte si sono prodotte, anche l’assurdo. Mantengo ancora una recondita speranza di essere qualcosa di diverso su questa registrazione puntuale del cambiamento che è la vita. Un giorno spero di rivedere questo libo e di sorridere dell’illusoria particolarità variante possibile, che definisco me.

Oggi ci fanno uscire, per qualche ora, o mesi o anni; che differenza fa, in un limbo? Non siamo cosi tristi, sconsolati, e clinicamente depressi. Usciamo dalla porta io e il mio collega e ci troviamo in un prato, ci sono fiori azzurri, gialli e viola radioattivo vorrei nominarli ma non ne conosco il nome, noi non lo sappiamo. Le mie emozioni sono come il disco di pietra qui sotto dello sfiatatoio, e ricordo la parola distanza e il suo concetto. Finisco per disperare nel cambiamento, prendere questa idea a prestito, che il dramma passa e si allontana.

 

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LA NECESSITA’ DI PUBBLICARE QUESTO TESTO CONSISTE CHE DOPO DIVERSI ANNI UN “CASSETTO” SI BUTTA O SEMPLICEMENTE SI RENDE PUBBLICO. NON E’ UNA RICETTA DI NESSUN GENERE, E’ UNA PARZIALE SCONFITTA, UN PARZIALE SCONFITTO. NE’ LO E’ PER GLI ASPETTI PSICOLOGI O MEDICI DI CUI NON VORREI NESSUNA RESPONSABILITA’ A RIGUARDO, NE’ HO ALCUNA ABILITAZIONE. IL TESTO DEVE INTENDERSI LIBERO PER LA LETTURA MA NON SFRUTTABILE DA TERZI. QUESTO E’ RITENUTO CONTRO LA VOLONTA’ DELL’AUTORE. CIO’ VALE PER GLI SCRITTI E LE IMMAGINI DEL SITO STESSO. I PERSONAGGI E GLI EVENTI SONO FRUTTO DELLA FANTASIA. QUALSIASI SOMIGLIANZA A FATTI REALI E PURAMENTE CASUALE.

Domenico Merli

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