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LA MORTE GUARDA IL FIUME

          di amultimediarte di Domenico Merli

 

 

In autobus, questa volta in autobus. L. pensa: questa volta, lei non mi ha accompagnato a scuola. Credevo che lei mi avrebbe accompagnato in auto, come aveva fatto sempre. Sembra un deserto se guardo fuori, perché c’è un grande campo prima della scuola. L. è tra altri viaggiatori tutti adulti sproporzionati alle fattezze di un bambino. L. suona il campanello per la fermata, non deve scendere. Non dice una parola, guarda “Non ti preoccupare” lo incoraggia una signora a grandi fiori ricamati addosso, “Ti aiuto io, vuoi, ecco, suona adesso, suona il campanello, adesso!” L. non suona e allora la donna schiaccia il pulsante, L. scende dell’autobus le ombre del viaggiatori scompaiono, il bambino è nel giardino assolato della scuola.

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Vorrebbe essere a casa, non riesce a decidersi a fare pochi passi ed entrare a scuola, L. s’irrigidisce. Gigante cosi si immaginava il mondo; lui è contratto e angosciato doveva decidersi, questi campi di un giallo fino all’orizzonte certo era cosi, le persone gigantesche sull’autobus, era solo perché lui era ancora piccolo, un bambino. L. ha i muscoli tesi. Doveva decidersi ad entrare a scuola, era tardi, perché sua madre non mi aveva accompagnato con l’auto questa volta, lo aveva sempre fatto, problemi! Dice lei. E’ contratto come solo sono i muscoli dei bambini. A cosa serve prendere un autobus se si è piccoli, se tutto è grande a cosa serve venire a scuola, io devo entrare, entrare a scuola. Ho paura, ma prendo posto al banco, sono nella mia classe al mio banco e ascolto la maestra. Il mondo si può definire solo in un modo, gigante …

        I bambini ascoltano, L. ascolta la voce della mastra che arriva rotta, frammentata, si spezza al suo ascolto, L. riprende ad essere contratto, teso, le parole della maestra vengono ingoiate con angoscia. “Gli avverbi – la maestra sta dicendo – sono parti del discorso” L. vaga senza un appiglio il soffitto lo percorre con lo sguardo senza limite, poi la maestra riprende, “Gli aggettivi sono parte del discorso.. cattivo, buono e..” gli occhi fissi di L. sulla finestra.

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Una sedia cade senza preavviso, di certo spinta da una giocosa mano di bimbo, poi nel imbarazzato silenzio, la maestra tace, L. torna a guardare e vedere intorno a sé i suoi amici, la maestra, una sedia caduta, a voglia di giocare con i suoi compagni. Si ritrova nel giardino interno, tutto è passato, dimenticato, solo una brutta mattinata. L. è con il suo amico, sono interessati dalla fontana, dentro la quale nuotano dei grossi pesci rossi, li disturbano ogni tanto ma per la maggior parte del tempo li guardano nuotare. Un bambino con lo stesso interesse si avvicina ma non trovando posto lì vicino e allora intima come fosse armato e in modo perentorio a L. di andarsene. Anche lui vuole vedere i pesci rossi ma L. lo ignora, L. aspetta tempo. L. lo spinge, distinto, premendo con le due mani sulle sue spalle e spingendolo indietro, i due bambini si fronteggiano. L. non sa picchiare e infatti le prende, subisce ad ogni scazzottate i colpi del rivale di turno, ma anche se le prende non si tira indietro. Passati cosi alle mani, L. gli si avventa contro per metterlo a terra, ma l’altro lo colpisce in faccia con un pugno, poi se ne va tutto sommato offeso, L. rimane a terra vicino alla fontana. Si rialza e si tocca il naso, non è rotto, ma un rivolo di sangue gli scende, si guarda la mano, vede il sangue colargli sulla maglietta. Ritorna alla fontana, guarda il sangue colargli nella vasca, e fare delle grosse macchie rosse galleggianti. L. si rallegrò vedendo che le macchie di sangue si dissolvono lentamente prima in una sospensione di nube. Poi in acqua rosa. Per lui era la conferma che lui stesso era proprio lui esisteva, che quel sangue era lui, lo trovò divertente. Alcuni pesci rossi quasi per gioco afferravano le minuscole gocce di sangue, era divertente, sempre più diverte per L. Il sangue aveva smesso di colare dal naso, aveva la maglietta macchiata e il viso ancora sporco. Passò la mano nell’acqua perché era ancora imbrattata di sangue, la scostò perché non si era accorto di un pesce più grande. Ritornò ad immergerla non lo aveva mai visto quel pesce rosso lento e grasso. Uno più piccolo picchietto la mano del ragazzo mentre quello più grande accorse e di balzo e lo ingoiò lui scattò via improvvisamente e inavvertitamente afferrò il grasso pesce rosso e inavvertitamente lo strinse e lo estrasse dall’acqua poi aprì la mano e il pesce gli cadde ai piedi. L. aveva visto mangiare la sua immagine che gli appariva inesauribile per via de sangue, era stata una parte del suo sé che lui vedeva e che poteva considerare bella e pura, ma quel grosso pesce ai suoi piedi non aveva nulla di amabile e lui era furente di rabbia. Come fosse stato che i suoi riflessi si rivelassero più pronti di quelli di un pesce, non era possibile, forse era malato o molto vecchio, ma ricordava con fastidio un antica usanza di qualche cultura a lui lontana, dove ad un neonato o quasi veniva messo in mano una pietruzza arroventata. Il pesce era per terra, all’aria si dimenava, L. era rimasto solo e la fontana rimaneva in una zona del cortile nascosta alla vista. La campanella della fine della ricreazione era suonata, doveva tornare in classe: guardò il pesce boccheggiante in attesa, non sapeva che fare. Perché era cosi grosso si chiese, perché non lo aveva mai scorto quel pesce tra gli altri della vasca, non poteva perdonagli le sue fattezze, lo irritavano era evidente che lo sfidava, ne era ridicolizzato e non poteva che tiragli un calcio e schiacciarlo come una zanzara, e poi non era mai stato visto nella vasca, uscito per distruggere lui, polverizzarlo e questo era troppo, troppo un gigante.. quasi all’istante sollevò il piede e con furia gli assesto una pedata tramortente, poi lo schiacciò. Doveva tornare in classe, il cortile era vuoto, era rimasto solo lui, ma se avessero trovato un pesce rosso lì, cosa gli avrebbe impedito alla maestra di accusarlo. Gli faceva genuino schivo, lo prese per la coda e lo rimise nella fontana. Sulla grossa pancia il pesce galleggiava immobile.

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“Cosa ti è successo?” La maestra guardava L. osservando ora il naso, ora la maglietta sporche; un grumo rosso di sangue pendeva dal naso e disegnava come su un clown una nuvoletta di rosa intenso intorno alla bocca mentre la maglietta portava il segno dei polpastrelli, come in una prova di impronte digitali, macchie rotondeggianti da pubblicità, e la maestra si chiese: “Con chi hai fatto a botte?” Il ragazzo rimase interdetto, di nuovo i suoi muscoli si tendeva ogni muscolo sembrava diventare una muro e rispose: “Con nessuno …” La maestra sorrise e disse con un po’ di scherno: “Io chiamo i carabinieri perché è proibito prendersi a pugni, lo sai, i carabiniere …” la maestra si interruppe nella classe tra risa e fracasso si sentiva scandire: “I carabinieri, i carabinieri …”

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L. non aveva un’idea chiara di chi fossero i carabinieri, ne aveva visto qualcuno ma ora li associava ad una punizione, alla morte del pesce rosso, ad un pugno sul naso. La maestra cambiò tono e divenne dura, inaspettatamente dura: “Lo sai, che posso finire in prigione per quello che hai fatto, e invece dovresti finirci tu!” L. ora associava una parola nuova prigione ed ebbe la voglia di piangere. “Tacete!” gridò la maestra e aggiunse “Tu devi venire con me, devi cambiarti quella maglietta e farti medicare il naso in infermeria, poi devi dirmi con chi hai fatto a botte, perché qualcuno deve pagare!” L. non pianse capì che i carabiniere sarebbero arrivati per qualcun altro, aveva il potere che certe volte hanno le vittime. Era già diventato una vittima che piangeva per finta, una menzogna detta da lui contava meno. Punto il dito sull’amico che sedeva a qualche banco dalla fine della fila e disse: “E’ stato lui a darmi il pugno!” In effetti gli conveniva avendo assaggiato il pugno del colpevole, e non temendo affatto invece quest’altro poveraccio che non centrava nulla: Quest’ultimo tirato cosi dentro, improvvisamente, non riuscì a dire nulla a discolparsi rimase a bocca aperta.

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L. era in una posizione di vantaggio, la palla si era fermata davanti ai suoi piedi doveva solo calciarla. Per tutto quello che era successo, la maggior parte non era conosciuta, non era neppure possibile provare qualcosa, non c’erano testimoni, il corpo del reato, il pesce galleggiava morto senza indizi, la mano che l’aveva picchiato, era diventata un'altra che non destava problemi, un’innocente era stato preso in mezzo. Bastava andare in infermeria e sarebbe ritornato a casa, con le scuse della scuola, in macchina e non da solo sull’autobus, riportata a casa dalla sua mamma. “Cosa aspetti, vai in infermeria!” gli disse la maestra. L. si scosto con una certa fatica, era rimasto senza entrare sulla porta, e uscì scese le scali e si ritrovo seduto in infermeria ad aspettare. L’infermiera prendeva tempo solo per arrivare alla fine dell’orario, di modo che lui senza troppo disturbo sarebbe potuto uscire con la madre alla mezza. Gli strofinò il naso col disinfettante, gli diede una maglietta pulita, di quelle che venivano da uno scambio, acquistate per le divise sportive o prese dalla donazione abiti usati. L. non era soddisfatto l’attesa lo metteva in una crescente agitazione. Gli ritornava in mente, che avrebbe dovuto raccontare una storia a sua madre, una storia che lei di certo non avrebbe creduto, per giustificare le botte, il sangue, il disturbo di venire a prenderlo in macchina. Se quel bambino suo amico si fosse suicidato, si fosse buttato dalla finestra, ci pensava, senza che questo gli desse fastidio o un piccolo dolore, ne sarebbe stato contento ne avrebbe provato sollievo. Non riusciva a mentire a se stesso con convincimento ma si ripeteva che se fosse morto quell’amico accusato era un fatto buono, era buono e giusto, era solo questione d’attendere e tutti sarebbero morti, prima o poi sarebbero morti, lui lo sapeva, doveva attendere. “Tua madre non può venire, mi spiace, alla campanella della mezza, preparati ed esci, vai a casa che i tuoi genitori ti aspettano”. Cosi era più facile, non doveva trovare una scusa, una storia inventata, inventata sul luogo dove lui pretendeva sarebbe dovuta avvenire al posto del delitto. Era sceso dall’autobus, aveva percorso l’area verde prima del palazzo ed suonato il campanello: “Ciao, mamma!” con tono dimesso: “Vattene in camera tua, bugiardo non voglio neppure ascoltare le tue storie!”. L. si sentì sollevato, tutto era a posto, si chinò e si stese sotto la scrivania, filtrava la luce della cucina, dove era sua madre, tutto era ok, aveva fame.

 

 

 

 

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La strada con il posto di blocco all’altezza dei cipressi del cimitero, in una nebbiolina uggiosa a perdesi nella campagna tra le rane che in quella stagione venivano servite nelle trattorie della zona, come specialità. Un vecchio trattore che incuteva con un’inquinante sgasata nera un rumore antico, la mattina del carabiniere L. consisteva in un controllo generico del traffico non per fermare qualcuno in particolare, doveva controllare genericamente per dare comunque l’importante segnale, che i carabinieri c’erano, placare l’opinione pubblica in quanto a sicurezza. Qualcuno certamente sarebbe potuto cadere lì al blocco dopo raccolti i dati di patente e libretto, identificato e nelle loro mani, o qualcuno avrebbe potuto forza il blocco, magari per un motivo banale, L. era stato istruito a questo compito in accademia, bene. Un arruolamento che nel suo caso, era per amore di quella parola carabiniere che dall’infanzia si muoveva tra due poli troppo carichi d’angoscia. Il collega aspettava nella calma dei luoghi, le case al sole di settembre, i tavolini dei bar senza turisti, un’auto da fermare, L. aveva un rapporto carnale con gli oggetti, ne sentiva un sapore che mitraglietta e divisa non avevano e anzi come tutte le cose fredde, non si prestano all’amicizia, cosi si negano come serpenti. L’aria si era riscaldata nella tarda mattinata, L. sognava sul grilletto più che per la mancanza di qualcosa da pensare, non perche volesse scherzare, ogni tanto sì giocherellava, accarezzava il grilletto, e toglieva la sicura. In un’operazione di altro genere avrebbe dovuto tenere sempre il dito sul grilletto e questo era esaltante e deprimente in quanto questa operazione non era che una illusione, una missione che voleva e temeva, grottesca ora, perché un sogno. Una macchina stava rallentando il guidatore aveva visto la paletta con la scritta “Carabinieri” esposta dal collega di L. e stava accostando, alcuni metri dopo L. attendeva armato con l’auto sopraggiungesse davanti a lui. Questo signore in macchina avrebbe potuto chiedersi perche gli agenti, in generale non prendano da soli i documenti e pensò perché questo violerebbe il diritto della persona con una specie di perquisizione. L. percepì il momento come l’esperienza di controllo totale che tanto desiderava, tra la decisione di aprire il fuoco, e la partenza del colpo intercorse un istante, ma lui lo percepì come un attimo di pace assoluta. In quello stato di calma profonda aveva sparato forse per uccidere o forse no, si può sparare per uccidere ma senza mirando per sparare. Tanto per

 

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sparare. Per intendere; un colpo al cuore si può sparare per uccidere ed è diverso da un colpo mirato che sicuramente ucciderà. Una differenza senza o no: convinzione.. Si può con un certa fortuna, fingere di uccidere, sparando e sperando in un colpo che sfiori la vita e non la spenga, e cosi si può mentire a se stessi colpendo un bersaglio ma non il centro del bersagli. Solo una questione di vari fattori, tanti, convinzione.. IL collega di L. era furioso, non poteva credere in una cretineria simile, in un gesto giustificato però da un fatto che si fossero uditi due spari e per quanto diversi, lo erano soggettivamente, solo uditi, cosa fosse successo era evidentemente un coglioneria, ma il collega di L. non mentiva c’erano stati due spari differenti. La vicenda doveva essere trattata dal comando in modo non differente, anche se fosse stato una palese azione criminale, di una difesa d’ufficio, quanto meno, non lo si poteva mettere al muro, lo stesso collega di L. anche se non riteneva per nulla influenti aveva sentito due colpi distinti e differenti. Lui stesso non poteva intervenire disarmando e arrestando un collega rischiando una sparatoria tipo resa dei conti. Le stesse procedure avrebbero richiesto un arresto immediato, almeno quando fosse giunto alla stazione dove era in servizio, ma per coprire con decenza una vicenda tutta una cazzata, la decenza davanti allo Stato richiedeva davanti alla pubblica opinione, non il linciaggio. Fu interrogato e sospeso dal servizio immediatamente in attesa dell’indagine interna, denunciato, e privato della pistola di servizio. Anche questa procedura fu rispettata in parte, lui libero aveva la pistola, in attesa di rispondere di omicidio o dimostrare la legittima difesa. Non era stato chiarito durante l’interrogatorio con il comandante, se la pistola ritrovata nella macchina fosse stata presa e puntata contro L., sembrava essersi materializzata lì per diavoleria, e la balistica non capiva come la pistola abbia sparato un solo colpo da un finestrino chiuso dal corpo di L. e non avesse lasciato traccia. L. stesso aveva sparato un solo colpo, un solo colpo dalla mitraglietta, dritto al cuore, cuore che non si era ancora fermato, di quel signore che lottava per sopravvivere, in rianimazione all’ospedale.

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L. stava premendo le dita che scivolavano sul metallo della pistola, era seduto in auto con la sua fidanzata gli avvenimenti della mattina erano stati resi pubblici dalla radio e dalle televisioni, la ragazza taceva, L. rivendicava tutta l’attenzione per sé. Qualcuno doveva aver sparato dal boschetto, dove c’era il blocco stradale, ricordava che il collega aveva inveito contro di lui, gli si era scagliato contro forse per capire quanto L. fosse pericoloso, e poi si era diretto verso l’auto di servizio, doveva intervenire i colleghi, non era compito suo sapere se l’autista fermato fosse vivo o morto, visto sanguinante l’aveva visto. Non c’era nessuna pistola e L. sapeva che non c’era una seconda pistola ma quando intervennero gli agenti e le ambulanze sul sedile del passeggero una misteriosa pistola comparve, rimane tutto in una possibile allucinazione sonora di un testimone per nulla “puro”. Squillo il telefonino “Pronto” disse L. “Sei fortunato, quel tizio dovrebbe farcela, è fuori pericolo” poi la conversazione s’interruppe. L. rimase ad attendere che qualcosa in lui prendesse il sopravvento, consapevolmente attese di uccidere. Toccando e ritoccando il serpente, il ferro, trovando tranquillizzante ogni cosa, la nebbia, la strada, la macchina appartata. Era una vita che si chiedeva perché non farlo. Non c’era niente, si accorse che s’innalzava tra lui, e il suo potere di uccidere. Il comandante lo aveva minacciato duro di farsi dieci anni di ospedale psichiatrico giudiziario, questo è sparare per sparare, disse, che per un ex carabiniere era due volte un inferno. Era solo questo, andare all’inferno ed era naturale, lo aveva saputo da tanto tempo e ora credeva fosse poco, un senso, per quanto assurdo lui non era mai uscito dall’inferno, lo aveva “trivellato”. Chissà era contento, di essere un assassino, un vero assassino. E poi quando me le avranno fatte tutte, sarò stato legato al letto settimane, picchiato con regolarità guardando l’orologio a ore precise, drogato da bruciare il cervello, sarà ancora un assassino, assassino, e perché non dovrei farlo? Sono un assassino per nulla, niente? E perché non dovrei farlo? E’ la legge della vittoria, mi metto la corona della vittoria, e sotto di me solo morti.. morti. La ragazza guardava il fiume che si muoveva portando coccodrilli, L. alzò la pistola, mirò per uccidere al centro di un organo vitale, ci fu uno sparo.

 

 

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amultimediarte@email.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scrittura di questo testo è, come accade a molti scrittori suggerito dall’attualità. Non è per nulla presa dalla realtà, né i personaggi sono reali, ne le vicende se non casualmente ripercorrono fatti accaduti. Non vi è in nessun modo l’intento di offendere in alcun modo gli agenti di pubblica sicurezza. Se fosse stata urtata la sensibilità del lettore me ne scuso vivamente.

Domenico Merli

amultimediarte@email.it

 

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