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AMULTIMEDIARTE                              

 


Era uscito di casa e aveva messo la chiave nella serratura che aveva girato tre volte. Aveva estratto la chiave del colore argento e l’aveva lasciata in aria sospesa tra le mani. Si staccava di trenta centimetri dalla toppa e la vedeva a dispetto della porta che era diventata solo una macchia di colore. La osservava come fosse diventata il centro di qualcosa.

Era sceso per le scale, aperto il portone che si era richiuso alle sue spalle, aveva percorso alcuni metri, girato l’angolo era entrato in macchina. Aveva guidato velocemente, zigzagando nel traffico, fino alla stazione. Aveva parcheggiato ed era entrato, era salito sulle scale mobili, e si era diretto verso il treno. 

Si era allontanato dai gradini metallici con gli angoli arrotondati e la griglia bucherellata. Camminava lentamente sulle piccole piastrelle colore fuliggine dove correvano sottili le fughe. Era arrivato al locomotore in coda al treno che era bianco, con una freccia rossa dipinta sopra, e a punta: sembrava la sezione longitudinale di un missile. vasca (2) copy.jpg

 

 



Davanti a lui poteva vedere un piccione; quantunque la testa fosse reclinata di qualche grado, e le penne della coda come un timone erano inclinate di lato, mentre le ali erano chiuse sul dorso che mostrava l’attaccatura come una cicatrice, il piccione lo guardava con un solo occhi che sembrava messo nella posa di profilo.

Lo aveva assalito un ricordo sgradevole che si era fatto nitido nella sua mente. Aveva la camicia di forza ed era in una stanza dove la luce entrava appena da una finestrella quadrata delle dimensioni di una mano. Lui sapeva che era solo un incubo che sognava di notte e che di giorno sembrava stranamente reale. Sentiva le chiusure e i nodi stringere le sue braccia dietro alla schiena. Una cinghia di cuoio gli bloccava il busto. Anche le gambe erano bloccate al lettino che aveva quattro rotelle.

Aveva paura sapeva che sarebbe successo qualcosa di brutto. Infatti udiva sempre un forte rumore alle sue spalle ed entravano un uomo e una donna. Li riconosceva dalle forma del corpo perché il volto era una maschera  con un foro al posto della bocca. Si chinavano verso di lui, si allontanavano e incominciavano a spingere il lettino. Così, si ritrovava fuori dalla stanza. Le persone si avvicinavano a lui o imitavano macchine e aerei come in una danza. Ma tutti avevano lo stesso viso mostruoso. A questo punto  egli era sudato nel suo letto.  

 

Il piccione era volato sul tetto del treno e non lo si vedeva più. No, non doveva prendere treno. Non aveva il biglietto di viaggio. Ma cosi non aveva più una meta. Non aveva senso quel momento. Si era mosso e avviato verso l’uscita. Fuori dalla stazione c’era un vento leggero. Sentiva tra le dita il soffio d’aria farsi palpabile. Avrebbe potuto prendere il treno e fare il biglietto in vettura. Si chiese perché non ci avesse pensato prima: se lo avesse fatto non avrebbe corso il rischio di perderlo. Adesso c’era anche questo pericolo. Che il treno fosse già partito. Se si fosse sbrigato sarebbe arrivato in tempo.

Eppure non si mosse: era in attesa che qualcosa succedesse. Ad esempio che un passante urtandolo lo svegliasse dal suo tepore. E una volta, scosso dall’urto, si sarebbe detto: cosa faccio qui, sbrigliamoci! Oppure aspettava che la voce dell’altoparlante invitasse tutti i passeggeri  a entrare in carrozza annunciando treno in partenza al binario.

Era stato svegliato da un’improvvisa folata di vento che aveva fatto sbattere il telone di un bar. Aveva sentito il rumore, senza capire da dove venisse, poi si diresse in quella direzione; superò una prima fila di auto parcheggiate a filo del marciapiede, aveva guardato a sinistra e aveva fatto qualche passo, poi si era fermato, stava arrivando un automobile, quasi lo sfiorò. Scattò con i muscoli contratti fino all’altro marciapiede, aveva preso un piccolo viale e superando gli alberi ed era arrivato dove la strada si interrompeva. Era entrato nel bar e aveva chiesto un caffè.

 

 

“Prego, si accomodi” era stata la risposta.

Qualcuno lo aveva bendato e lui a tentoni cercava di trovare qualcosa. Non sapeva cosa cercasse, ma l’angoscia cresceva. Con un ginocchio aveva urtato una cassa sul pavimento che era tutta ingombro di cose imballate. Era caduto in avanti e con le mani aveva toccato il muro, graffiandosi. Si era girato su se stesso sfregando con le dita le pareti e aveva sentito qualcosa di metallico: doveva essere la porta. Era chiusa però e lui non poteva uscire.

In quel momento arrivò il cameriere che gli servì il caffè e mise il conto sul tavolo: lui aveva aperto gli occhi accorgendosi che si trovava in un luogo diverso da quello che aveva immaginato facendo l’incubo. Era stato un altro incubo a occhi aperti. Da qualche tempo erano diventati più frequenti e lo assalivano con più violenza. Adesso, si stava concedendo una pausa. Era una giornata grigia e aveva molto tempo e si poteva permettere di stare in quel bar e lasciare che in mondo gli passasse accanto.

Il tempo avrebbe tenuto a dispetto delle grandi nuvole azzurrognole che sovrastavano la città. Sulla strada le macchine passavano veloci e le osservava scomparire dietro la curva. Le persone passando non facevano caso a chi ci fosse dentro il locale e continuavano dritte per la loro strada. Sembrava che solo lui si fosse fermato un momento forse, a orientarsi.  Ma non era una vera riflettere era un rimorso della strada persa.

 

Era caduto vittima del senso di colpa e aveva il corpo indolenzito, punito, perché? Le braccia erano diventati molli e il fiato stentava: qualcosa dentro la sua pancia gli faceva male. Era un dolore sordo che si propagava dal ventre fino a raggiungere il suo collo. Il conflitto non lo avrebbe vinto, ma la libertà era poca e assicurata, era rimasto sospeso dalla normalità del vivere.

Era come se avesse ingoiato un sasso e ne sentiva tutta la pesantezza. A tratti diventava pungente e gli si rigirava la pietra tra i sui nervi che tesi rilasciavano un amaro e disperato pensiero: il rammarico. Ora che aveva perso il suo lavoro gli sembrava davvero che tutti quegli anni fossero passati invano. Il suo primo incarico era stato quello di dirigere il reparto ricerche di una piccola azienda di cavi telefonici.

Dopo pochi mesi era diventato vicedirettore della azienda e dopo qualche anno amministratore delegato. Era stata una vicenda assai oscura, in consiglio di amministrazione aveva preso repentinamente la decisione di promuoverlo. Si trattava di persone che rimanevano nell’ombra e che pur essendo i proprietari non si esponevano mai come dei. Lui non li conosceva di persona, ma solo indirettamente per fama erano lontanissimi si era fatto un’idea fatalista e divina. Licenziato nel giro di una notte. D’altronde il suo primo interesse era stato per la ricerca e il resto poco aveva capito, per essere un ricercatore si era affezionato al lavoro tralasciando di approfondire per chi e perché facesse quel lavoro.

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Prese il foglietto dello scontrino che gli aveva portato il cameriere, e dopo averlo piegato, lo mise sotto il portacenere. Il diametro della tazzina, era bastata un’occhiata per capirlo, era quella dei cavi telefonici su cui stava lavorando.

Aveva voglia di prenderla e lasciarla cadere, lasciare che si rompesse fragorosamente. Qualcuno sarebbe trasalito dei clienti, altri si sarebbero smarriti e il cameriere si sarebbe preoccupato per l’affanno di dover pulire e raccogliere i cocci.

         Una schiuma leggera come panna galleggiava sul liquido scuro. Era arrabbiato. Tutto il progetto si era fermato proprio adesso che era quasi arrivato alla realizzazione. Si trattava di fare che il lavoro teorico diventasse un esperimento di laboratorio.

Lui era convinto che non avrebbe fallito: se questo fosse stato possibile avrebbe fatto quella scoperta che aveva sempre desiderato. L’intuizione l’aveva avuto durante la stesura della tesi di laurea. A suggerirla era stata la visione della sua ragazza intenta a guardare fuori dalla finestra.  Erano già fidanzati da due anni, e avevano l’abitudine di passare alcuni fine settimana al mare.

In quei giorni, i più felici della sua vita, lei si alzava dal letto a due piazze e apriva la finestra. Era l’unica occasione che avevano di dormire insieme e di vedere insieme l’inizio di un nuovo giorno. L’idea gli era venuta appunto lì, guardando Disabes che guardava il mare.

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Poi si era alzato e si era avvicinato a lei. Le aveva passato un braccio sulle spalle e si era perso nella contemplazione. Guardava qualcosa dentro l’acqua come un’ombra scura. La sua idea era come un mostro marino che nuotasse sul fondo dell’abisso. Lo doveva raggiungere e afferrare immergendosi anche lui fino a che lo avrebbe raggiunto e portato in superficie dove tutti potevano vederlo. Ma ritornava a galla a mani vuote, aria andata a fondo.

Con il desiderio troppo ardente dell’asceta o del mistico per la verità si interrogava se quello che aveva in mente fosse veramente possibile. Si poteva mandare un messaggio da un continente all’altro usando il mare, l’acqua come mezzo? Quale forma doveva avere? lui immaginava come una catena di aminoacidi chiamati da una forza misteriosa a nuotare fino ad un ricevente che doveva essere più che una macchina un corpo dove attraccare.

Aveva alzato la tazzina del caffè e aveva accostato le labbra. L’aroma avvolgente lo aveva colpito. Nella sala c’erano pochi avventori e un suono sommesso si udiva con chiarezza. A dispetto del caos della città dove si impongono alla percezione solo i rumori più forti questo leggero si udiva. Era il cigolio del condizionatore. Essendo regolare e acuto conduceva ad una rilassatezza dolce e piacevole. Si era abbandonato a questa sensazione e il ricordo di quei giorni era riaffiorato.

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Era andato in biblioteca. Era trascorsa qualche settimana da quella breve vacanza con Disabes. Si era seduto al tavolo dei giornali, in quel momento, aveva visto entrare una ragazza.

Lei si era fermata al banco del bibliotecario e aveva preso un foglietto dalla borsa. Lui era ritornato sulla prima pagina e si era sforzato di capire il senso di quella espressione “fobia” scritto a grandi lettere sulla sinistra della pagina, ma non ci riusciva. Qualcosa era successo. La silhouette della ragazza gli era tornata in mente e lui aveva alzato lo sguardo per cercarla, ma era scomparsa. Era tornato nuovamente a quell’espressione verbale senza cogliere il senso, sentiva il bisogno di alzarsi. Non capiva perché provasse quell’impulso eppure era irresistibile. Non voleva cedere così aveva aperto il giornale di nuovo le parole che leggeva non facevano che fare crescere la sua ansia. Cosa si intendesse con le parole, per un attimo gli sfuggi. Il nero forte dei titoli lo opprimeva. Arrivato alle pagine economiche si era fermato su una lunga fila di numeri. Per lui non avevano alcun significato e questo lo acquietava lo rendeva qualunquista, mancanza di appigli. Stava arrivando alla fine della pagina quando aveva letto quarantuno e due. Era la moneta di un atollo polinesiano al attuale valore di cambio. Doveva essere un paradiso e lui voleva arrivare alla felicità. Quarantuno e  due, quarantadue, fobia, estero, quarantaquattro virgola cinque. Sì, no. S’alza, non contava altro nella vita che essere felici aveva pensato e lui, in quel momento, la stringeva in pugno la felicità. Era la cosa più importante della vita e qualunque cosa  fosse la stringeva nel pugno. Una illuminazione era il volto di quella ragazza.

 

L’agitazione era cresciuta perché adesso voleva vedere il volto di quella ragazza rivederla e vederla volontariamente per la prima volta. Si era alzato e aveva visto il giornale aperto sul banco da una distanza diversa. Così in piedi sembrava essersi rimpicciolito. Lo chiuse e si era diretto verso la mensola per posarlo lesse il nome della testata “La Tribuna di U..” Quando lo aveva posato aveva letto “Nuova missione spaziale su Marte.”

Se gli astronauti  non avessero frenato la corsa del razzo alla stazione internazionale Marte cosa sarebbe successo? Se si fossero lasciti trascinare dal vento spaziale verso l’ignoto? Sarebbero sopravvissuti a tempo indeterminato per via della enormità della cosa  fino a un posto abitabile della Galassia, si chiese sconvolto. Non era un suicidio non frenare quando la notizia diventa mondiale era forse, forse libertà. Come fosse poi dopo nel buio che sa solo chi trasgredisce enormemente, ammutina in una navicella spaziale e se loro avessero puntato verso una luce tra le tante, tutto era possibile e lui era uscito dal locale.

Cercava di trovare la ragazza che aveva intravisto e che era subito scomparsa senza sapere che cosa avrebbe detto e che cosa avrebbe fatto, sperava di essere intercettato nella sua corsa nello spazio vuoto da una vita extraterrestre che lo redimesse dai sui peccati esaltati dal coraggio forse o qualcosa comunque, e lo conducesse dall’incoscienza o ad una vita più vera; contemplava davanti al locale al di là di un vetro altre persone. La stanza multimediale era appunto isolata. Dal vetro vedeva teste piegate davanti a monitor con le cuffie in testa intenti a osservare dei filmati o ad ascoltare musica. Aveva ispezionato con lo sguardo la sala alla ricerca della ragazza. Colei che lo aveva tanto colpito e non doveva appartenere alla biblioteca, né al mondo.

 

Gli sembrava che gli fosse venuta incontro ma si era sbagliato. Aveva incrociato una ragazza che non assomigliava affatto a quella cercata. Gli era venuta incontro con una velocità e una determinazione che lo avevano confuso. Ma perché non era lei? L’impressionò il fatto che ella potesse avere delle sembianze  più d’una greca dea apparigli, scomparire, abbagliarlo, confonderlo. Se fosse stato cosi avrebbe potuto dubitare anche di una come la ragazza che era appena passata.

         Per un attimo gli era sembrato veramente diretta verso di lui e come per digli qualcosa. Non in tono sommesso ma bensì urlato la ragazza aveva detto la parola libertà. Aveva sentito questa parola senza vederla uscire dalle sue labbra. Aveva da prima lui intuito che lei stesse per parlare e poi lei aveva fatto un gesto con le braccia come per farsi notare, individuare. Poteva essere un semplice scatto nervoso o poteva trattarsi solo di allungare le braccia per distenderle o richiamare l’attenzione di chissà chi eppure per lui era un segnale.

Intendeva quel gesto come un segno che avesse il significato di indicagli una strada. Lui sapeva benissimo quello che voleva e cosa intendesse per strada. Essere riconosciuto nel suo segreto doloroso e avere ragione sulla ragazza sconosciuta. Ciò voleva dire dimenticare tutto quello che gli avevano insegnato e detto della vita, tutti i giornali letti. Chi non vede oltre essi non sa, ma lui voleva prendere e mettere nel sacchetto nero tutto quei discorsi che aveva sentito. Lui sapeva, ognuno sa ma a modo suo. Contava solo una cosa e il resto non erano catene che lo imprigionavano. Contava solo quella ragazza che non avrebbe mai messo dei limiti e dei confini.

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Perché lui voleva superarli e sapeva che lei era la persona giusta per questo. Lo aveva capito con un occhiata.  Così prima di rendersi conto che non era lei aveva sentito una voce che urlava la parola libertà e tutto gli appariva chiaro, senza limiti.      

Disabes lo avrebbe perdonato mai per questa sua colpa. Questo tradimento consumato solo con il pensiero e per questo così incancellabile. Era entrato nella sala degli audiovisivi e aveva sentito un silenzio irreale portare la delusione di un fallimento. La ragazza non era lì lui lo sentiva. E temeva non fosse più neppure al piano superiore. Forse lavorava dentro a quell’edificio nel sotterraneo tra stretti cunicoli pieni di libri. E allora sarebbe stata introvabile, protetta, inaccessibile al suo determinato vizio tra il piacere e la curiosità.

Dallo schermo sulla sua sinistra vedeva una ballerina danzare senza che lui sentisse la musica, poteva trovare comunque il tempo ricostruendo le scansioni dei suoi gesti. Era come leggere le labbra o ascoltare il proprio cuore che pulsava vita, in quel momento tanto s’illuminava. Doveva trattarsi di un viaggio sotto la soglia dello zero assoluto il suo. Era uscito dal capo gravitazionale dei pianeti e adesso stava congelando sempre di più in distanza. Andava oltre il congelamento verso nuovi freddi e nuove mancanze di calore superando qualsiasi soglia, cosi come voleva. La lontananza da lei, sconosciuta ragazza, lo straziava.

Uscendo prese le scale per salire al piano successivo. Guardava ogni cosa cercando un segno della sua presenza.

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Poteva ritrovarne un segno anche nei grandi dipinti appesi alle parete. Erano i visi seri di uomini in posa, antichi abiti medioevali. Nel cercarla aveva trovato il colore dei suoi capelli tra le tinte del pittore. Era arrivato alla sala di lettura e aveva aperto la porta. Le persone erano intente a studiare. Gli era venuta un gran voglia di mangiare della frutta. Immaginava la buccia dei mandarini che si apriva sotto le dita e ne assaporava il profumo. Esitò solo quando si accorse che le sue sensazione stavano accelerando.

Aveva percorso la sala nella sua lunghezza lasciandosi guidare dall’istinto per trovarla. Era arrivato alla fine davanti ad una porta con scritto “vietato entrare”. Aveva girato la maniglia e varcato quella soglia si era ritrovato tra una infinità di libri. Erano negli scaffali alle pareti e in altri disposti come in un labirinto. Da quella stanza poteva accedere ad un’altra dalle stessa forma e con il medesimo arredamento. Aveva incrociato una donna. La ragazza cercata che lì lui si aspettava di trovare doveva essere uscita e adesso lui sentiva di averla persa per sempre.

“Cosa fa qui?” gli aveva detto un uomo che si era insospettito.

“Mi sono perso” aveva risposto e aveva aggiunto “Dove è l’uscita, per favore.”

“Ma come a fatto ad arrivare qua?”

“Dove è l’uscita, per favore, non mi sento molto bene” gli aveva risposto.

“L’accompagno.”

 

 

Si era ritrovato nella sala dello schedario. Aveva aperto un cassetto e si era messo a consultarlo. Quando aveva trovato proprio quello che cercava: la trasmissione di informazione nei conduttori liquidi.

Si era messo una mano nella tasca della giacca per prendere una penna a sfera, aveva bisogno di un pezzo di carta, e decise che avrebbe usato quelli che erano stati messi per appuntare la segnatura. Voltandosi nuovamente aveva visto che la siglatura, un codice di numeri e lettere, era stata cancellata. Era rimasto però il nome dell’autore. Professore Arter Den Foj.

Si era diretto verso il bibliotecario per chiedere che fine avesse fatto la segnatura di quel libro.

“Ma non so, può capitare che si compilino delle schede dei libri con il titolo di un articolo; oppure parte del contenuto di un saggio finisce per comparire come una pubblicazione. In altre parole, deve essere stato un errore. Qualcuno ha fatto un bisticcio con la schedatura, quando si compilano le schede...”

“Si, grazie, ho capito” In realtà, non aveva capito da dove fosse uscito quel scheda, interessantissima ma il libro sulla trasmissioni delle informazioni nei liquidi era introvabile se esisteva e non fosse un solo parte minima di un articolo.

Una possibilità era che fosse non un libro ma un articolo appunto. Ma di che rivista se non v’erano numero e sigle, forse … Poteva controllare con il computer. Era entrato nuovamente nella sala di lettura ma questa volta non era andato dritto e aveva voltato sulla sinistra era entrato in un altra stanza dove c’erano due terminali informatici a disposizione del pubblico.

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Il più vicino era occupato e si diresse all’altro. Vi era uno screen saver con la scritta in rosso che correva da destra a sinistra “Biblioteca centrale.” Appena aveva toccato il mouse la scritta era scomparsa ed erano comparse diverse opzioni. Tutto gli sembrava strano obliquo inseguimento. Si poteva fare la ricerca nella biblioteca in cui si trovava o in tutte quelle della città oppure ancora in tutte quelle dalla provincia collegate. Scelse di digitare il nome del professore per la ricerca come articolo.  La risposta era stata “file non trovato.” Allora aveva pensato che non vi fosse stato nessun errore e che si trattava di un vero libro. Cosi aveva iniziato di nuovo la ricerca e infatti aveva trovato qualcosa con la dicitura K001 per la biblioteca e la sigla De per l’autore e X per il volume. Si mise a fantasticare su quel De,X, K001 e lo collegò al un amore pericoloso ed eccitante. Si sentiva fortunato perché il computer lo segnalava con a disposizione in quella stessa biblioteca. Con la siglatura si diresse nuovamente verso il bibliotecario per poter averlo in consultazione o in prestito.

“E molto strano - gli disse - di solito si usa questa dicitura per gli atti dei congressi che non sono stati rilegati in volume perché erano manifestazioni minori anche se ricorrenti”

“Posso consultarli?” gli chiese sempre più stupito di trovare tante difficoltà.

“Deve andare al piano superiore nella stanza trecentoventuno.”

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Non aveva mai saputo che vi fosse un altro piano e non si era mai preso la noia di contarli da fuori. Era sulle scale e gli sembrò di trovarsi in un luogo riservato. Dal corridoio vedeva delle porte che sembravano degli uffici. Una porta si era aperta ed era uscita una donna con dei fogli nelle mani: era la stanza trecento cinque. Lui aveva superato quel punto e si era ritrovato davanti alla trecentoventuno.

Aveva bussato ma nessuno aveva risposto. Così era entrato. C’erano degli scaffali alle pareti ed una finestra proprio di fronte a lui. Negli scaffali c’erano dei contenitori con delle lettere alfabetiche sopra. Prese il prima con la lettera “A” e lo appoggiò sul tavolo al centro della stanza. Lo aveva aperto e ne aveva tirato fuori il primo fascicolo colore sabbia. “Aman Farmaci organizza il congresso Il trauma infantile. congresso. Atti del congresso nazionale Anam. Relazione del professore Giorgio Amadeics.” Seguiva, titolo e l’elaborato scritto dell’intervento.

Aveva appoggiato il volumetto accanto al contenitore e ne aveva estratto un altro che riportava il titolo “Addizioni; alcune considerazioni di algebra elementare” e a seguire il nome di uno studioso. Due più due. Capire e sapere. Questo non lo interessava. Erano stati catalogati non in modo sistematico ma a volte per titolo e a volte per autore. E ne capiva né sapeva. Era andato alla lettere “D” e “F” sperando di rintracciare il libro del professor  Arter Den Foj ma non aveva trovato nulla. Si trattava di consultare tutti i contenitori. Era stanco, si era fatta sera ed era sceso al piano inferiore.

Provare ancora con il computer. Questa volta selezionando solo in nome del professore. La sala era deserta. Questo isolamento gli dava un senso rassicurante di calore. I computer erano accesi di fronte a lui ma per quanto si sforzasse di rendere accurato il suo lavoro del professore non c’era nessun indizio. Si era deciso di nuovo a chiedere alla bibliotecaria. C’era un ragazzo intento a fare delle fotocopie. “Scusi - gli disse - il professore Arter Den Foj dove insegna?”

“Non lo so esattamente ma penso che si sia ritirato o qualcosa del genere.”

“Grazie” concluse. In quel momento si era avvicinata una ragazza che disse: “Prendo in prestito questi libri.”

Aveva capelli neri che scendevano fino alle spalle. Erano dritti eppure avevano quel volume che hanno sempre i capelli ondulati. Portava una piega leggera con disinvoltura ed eleganza che scendeva da un lato e copriva in parte la fronte. Per aiutare l’acconciatura che era semplice e inspiegabilmente importante aveva una piccola molletta rossa e dorata.

L’espressione delle sguardo era riflessiva e malinconica insieme. Non che dovesse essere triste di natura, tutt’altro, ma gli occhi così grandi finivano inevitabilmente per farla sembrare di umore ombroso. Soprattutto per quel loro colore cosi scuro, nel quale si aprivano finestre di luce dai riflessi di una disarmante profondità, e che era carico di una pienezza suggestiva. I lineamenti anche se sottili erano decisi e le disegnavano un viso di una straordinaria bellezza. Le labbra si erano aperte in un sorriso assai lungo rispetto al volto e tuttavia perfettamente proporzionato tanto particolare e bello da essere ammaliatore. Indossava una camicetta a fiori e inavvertitamente i suoi seni lo sfiorarono.


 


 

 

 

 

 

 

 

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Aveva ripensato a questo incontro per un istante e quanto bastava per girare lo zucchero nel caffè per scioglierlo. Nel bar erano entrati degli avventori per la pausa di mezzogiorno e si erano seduti nella sala che continuava ad avere degli spazi liberi. Il chiasso copriva il rumore del condizionatore e la voce di una donna più acuta si alzava sopra le altre voci. Era arrivato il cameriere che scriveva senza guardare sul pezzo di carta dei segni come geroglifici o come stesse stenografando. Gli sguardi erano fissi sul menù alla ricerca di un piatto piuttosto che un altro. Si era allontanato per prendere due vaschette con del pane e ne aveva messa una per tavolo. Aveva servito per prima cosa le insalate che erano già pronte, lavate e asciugate le foglie erano state arricchite con dei sapori delicati. Era ritornato con la mente a quella ragazza che aveva conosciuto in biblioteca. Era stato titubante ma aveva un solo proposito, si era voltato e l’aveva vista, bella come si aspettava, dolce come si aspettata e come se l’avesse sempre aspettata, sconosciuta che aveva con cordiale gentilezza inaspettato altruismo sincerità; attimo fermato esattamente dove si doveva lei fermare dove si attendeva lei di essere fermata lui disse:

“Posso aiutarti a portare i libri?” Lui gli chiese.

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Lui le aveva chiesto se poteva aiutarla a portare i volumi:. Erano libri non concessi in prestito e questo averli lì significava fosse un assistente perché solo i docenti godevano di questo privilegio.

Lei aveva accettato di buon grado, e così si erano ritrovati in strada, lui la seguiva senza fare domande, chiuso in tanti dubbi. Lei la camicetta a fiori era chiusa da una cintura a banda larga su una gonna di tessuto morbido sopra il ginocchio; le gambe però erano molto lunghe e così ben affusolate che sembrava mostrarsi senza pudore. Per quanto nel suo vestire non vi fosse nulla da eccepire, lui l’aveva subito desiderata come una cosa sua.

Impacciato dai libri, era rimasto per un attimo estasiato; lo aveva colpito la disarmante disinvoltura che lei mostrava. Stupidamente sentiva che lo aveva già fatto partecipe di un segreto. Quello di potersi appropriare dei pesanti volumi rilegati in similpelle con testi rari, privilegiati, introvabili.

Quella disinvoltura nel camminare, nel mostrare la sua figura, nel respirare; anche nel immettere ed espellere aria, lei sembrava distinguersi da tutti coloro che aveva conosciuto fino a quel momento.

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come ti chiami lui le chieste infine. “Lebsel” gli aveva risposto

“E tu?” gli aveva domandato dopo un attimo di pausa.

“Bioden Issen” aveva risposto.

“Sei fidanzato?” disse improvvisamente Lebsel. Lui avrebbe voluto mentire senza motivo, solo per farle sapere che era disposto a tutto per lei, ma disse:

“Si, non te lo immaginavi?” era un modo per non lasciare che gli sfuggisse, come dire: è un abitudine come un’altra avere la fidanzata.

“Non è importante? Lo dici come se fosse scontato.” Lo aveva criticato e lui avrebbe dovuto attaccare, difendersi, mentire.

“Non è importante, infatti, lo fanno tutti prima o poi. Il fidanzamento, il matrimonio, il divorzio non trovi che siano così banali proprio perché lo fanno tutti?”

“Trovo che tu stia mentendo”

“E’ la verità, te lo assicuro... un film sempre lo stesso..”

“Vedremo” concluse la ragazza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel bar era tornata la calma ed era rimasto solo. C’erano nella sala con alcuni clienti al banco. Il cameriere si era avvicinato al suo tavolo, senza fare attenzione a lui aveva preso la tazzina con piattino e li aveva messi su bancone.

“Posso avere un altro caffè?” aveva detto un tono che non lasciava alla stranezza di quel gesto nessuna ironia.

“Certo” gli aveva risposto il cameriere in modo professionale.

Stava pensando a quello che era successo quello stesso giorno che aveva incontrato Lebsel. Quando lui le stava portando i libri. “Siamo arrivati” lei gli aveva detto.

“Tu abiti qui?” lui le aveva risposto.

“Diciamo che ci vivo”

“Vuoi salire a bere un caffè?”

“Grazie”

Lei aveva aperto la porta con una chiava d’orata. Aveva spinto pesante pannello in legno, ed era entrata, e teneva la porta aperto per lui. Dentro si apriva un piccolo atrio con le caselle della posta.

“Ti pesano i libri?” gli aveva chiesto

“No”

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“Allora facciamo un gioco, io ti provo a baciare e tu tieni e volumi in mano” Lei gli disse.

Bioder pensava che lo avrebbe baciato veramente ma lei aveva solo avvicinato le sue labbra. Si era mosso di scatto, ma lei si era ritratta e lui era rimasto col collo strozzato.

“sembri una tartaruga: ma tu sei una tartaruga, vero?”

“Sono solo il guscio di una tartaruga” gli aveva risposto.

Ma pensava solo ad una cosa: al volume del professor Arter Den Foj che aveva fisto nelle mani di lei. La trasmissione delle informazioni nei liquidi.

“Adesso, chiamo l’ascensore. Allora e proprio vero che non t’importa di essere fidanzato”

“Sei tu la mia fidanzata: le altre non contano”

“Bravo, può darsi che noi due andiamo d’accordo”

L’ascensore era arrivato e si era arrestato fragorosamente. Lebsel aveva la chiave per aprire la grata che serviva da porta e aveva aperto anche quella interna. Sotto alla luce diffusa dall’alto bianca e chiara, gli occhi di Lebsel divennero ancora più scuri e lampi.

“terzo piano” e dicendo questo aveva schiacciato il pulsante con il numero tre sopra.

Erano sul pianerottolo quando lei gli chiese:

“Mi avresti baciato veramente?” 

 

Prese lo scontrino tra le mani. In quel modo poteva sapere che ora fosse senza guardare l’orologio. Le undici e cinquanta. Il cameriere era ritornato con il caffè. Aveva appoggiato un altro biglietto bianco sul tavolo. Poi aveva servito la bevanda bollente e scura. Guardando il nuovo biglietto lesse l’una e cinquanta. Era passata un’ora.

Ricordava che quando aveva avuto per la prima volta l’idea della trasmissione attraverso i liquidi non stava guardando il mare. Era nel letto, sotto il lenzuola e la coperta leggera e guardava Disabes. Lei si era alzata e con indosso la sottoveste, che usava come pigiama, aveva aperto le imposte. Lui vedeva solo le sue caviglie salire verso i muscoli del polpaccio con tendini sottili che senza allungarsi finivano nelle ginocchia. E vedeva i glutei morbidi e a scendere, e le spalle con le ombre delle scapole. I capelli coprivano il collo e davanti a lei c’era quello che lui aveva sempre cercato. Un’idea. Era sublime in quel momento Disabes? Lui se lo era chiesto da quel momento in poi. Si era comportato come se non lo fosse, ma fu sublime?

L’ultima volta che l’aveva vista erano arrivati alla spiaggia e il sole era scomparso lasciando una traccia di luce all’orizzonte. Il mare specchiava il blu restituendo una tinta più scura e marcata.

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 “Quelle - le disse Bioder - sono le Pleiadi”

“Dove?” rispose Disabes sorridendo.

“Segui la direzione in cui è puntato il mio dito” Non era convinto che fosse un metodo efficace quello di indicare in quel modo le stelle eppure non ne trovava uno più efficiente. “Verso lo zenit, le hai viste? Sono un piccolo raggruppamento dentro uno spazio minuscolo”

Si erano seduti sulla spiaggia e osservavano l’onda del mare risalire e ritrarsi. “Ti piace la sabbia?” Le aveva chiesto.

“Sì, perché è bella”

“Cosa ci trovi di bello?”

“Il fatto è che assomiglia a qualcosa di vivo senza esserlo. Si muove, cambia forma, sembra respirare ed ha il colore del sole, della vita appunto.”

 “E se dovessi scoprire che questa cosa sulla trasmissione delle informazioni nel mare, cosa farai?”

“Tornerò da te e ti chiederò di sposarmi”

“E io ti dirò di no, lo sai?”

“Sì, lo so”

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La via era di quelle a ciottoli, stretta tra antiche mura. Prima di entrare c’era un gradino bianco, alto solo di qualche centimetro dalla strada, la porta era trasparente, faceva un tutt’uno con la vetrata. Era stato messa in bella mostra un cartello con le tariffe aeree andata e ritorno: Londra, Parigi, Madrid ad altre capitali: compreso un breve soggiorno. Più in basso, delle fotografie di posti esotici. Spiagge, fiori, capanne sotto le palme e altro con impresse a scritte rosso smagliante il nome dell’agenzia: Fulkworld international travels.

Aveva riconosciuto la ragazza che gli aveva fatto il biglietto ferroviario giorni addietro. Era dietro una scrivania.

“Buongiorno” le aveva detto e aveva aggiunto “Penso di aver lasciato qui il mio biglietto ferroviario”

“Scusi?!” era stata la risposta

“Penso che voi abbiate il mio biglietto del treno”

“Ma si certo, Lei è il signor ....”

“Bioden Issen”

“Certo, Issen Bioden: ecco il suo biglietto. Lo abbiamo tenuto da parte. Prima però, la devo avvisare di una cosa. Anche facendo solo un semplice biglietto lei partecipa al grande concorso della nostra agenzia.

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Ci sono in palio molto premi: il primo è un giro del mondo completamente gratuito. Poi, può vincere vacanze nelle principali località turistiche e nelle più importanti capitali mondiali. La durata del giro del mondo e di tre mesi, la interessa?

“Con il mio lavoro...” stava dicendo quando la sua interlocutrice lo aveva interrotto per dire

“Non mi dica che non può prendersi tre mesi di ferie?”

“Per la verità, la mia società ha eliminato il mio progetto”

“E allora quale migliore occasione per prendersi una vacanza. Compili questa scheda e la metta in quella scatola. Ci sarebbe un’altra cosa – lei gli disse mentre lui compilava la scheda - forse, non si ricorda più dove ha lasciato il biglietto, intendo, voglio dire che si ricorda di averlo lasciato qui, però non esattamente dove. Perché vede noi l’abbiamo trovato... come dire. Noi l’abbiamo trovato sopra una valigia. Scusi se lo chiedo è sua anche questa valigia? Issen rimase un poco intontito e disse:

“Si, è mia”

Prese la valigia e mise il biglietto nel portafogli. Aveva finito di compilare la scheda e l’aveva imbucata. “La ringrazio molto” disse. “Nulla, faccia buon viaggio”. “Grazie.”

 “Issen Bioder, ingegnere, dirigente d’azienda”

Ma si era dimenticato di compilare il resto della scheda.

 

 

Bioder Issen era uscito dall’agenzia. Aveva la carta telefonica, mentre i soldi erano finiti, la prese e si diresse alla fine di via. Aveva visto una cabina telefonica e aveva fatto il numero della stazione: era occupato. Si era allontanato solo qualche passo poi era tornato ed aveva riprovato: ancora occupato. Voleva sapere a che ora sarebbe partito il prossimo treno.

Doveva aspettare un’ora e mezza prima che partisse il prossimo treno. Così almeno gli aveva detto la signorina con la divisa delle ferrovie.

Si era seduto nello compartimento accanto ad un signore con la barba e i baffi bianchi che non si era tolto il cappello e che guardava fuori dal finestrino del treno in marcia passare la pianura. Bioder Issen gli si era messo accanto nel posto libero alla sua destra di fronte c’era una donna che, nonostante l’età conservava una vitalità forte che le accendeva gli occhi chiari. Le loro voci arrivavano da un distanza lontana e indeterminata. Non c’erano più forme chiare perché aveva chiuso gli occhi. E il viso del vecchio fatto di spigoli del mento e degli zigomi, di palpebre a mezz’altezza si perdevano in uno sfondo scuro. Come i suoi polsini logori della camicia e il suo capello basso e con le falde sottili e strette; l’uomo dai baffi bianchi. Anche per la donna con la sua borsa di canapa con dentro uno scialle blu, le  sue gambe aperte e gonfie, la sua smorfia di impassibilità, scomparve per Issen.

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Anche la fermezza con la quale piegava i gomiti, l’uomo dai baffi bianchi come non avrebbe più dovuti riaprirli, e la rigida postura, resa solo un poco meno ferrea dalla curvatura delle spalle, si stavano spegnendo nella sua mente.

Era il sonno che stava arrivando portandosi una nuova sensazione, piacevole. Per quanto si sforzasse di ricordare non ci era riuscito. Si era trovato davanti ad un negozio di stoffe ed era entrato. Qualcuno gli aveva mostrato dei campioni di merce. Erano carte da parati. E questo lo aveva reso incredibilmente felice. Si era compiaciuto molto per un disegno di una un bocciolo di rosa riprodotto in tutte le tinte.

Trovava estremamente gradevole osservare come i coloro mutassero e si cambiassero procedendo con l’osservazione. Sentiva il bisogno di toccare di sentire sotto i polpastrelli i disegni in rilievo.

Si era avvicinato ad un espositore con altri tipi ci carta in mostra su rotoli che avrebbe voluto si srotolassero da soli, lasciare che cadesse sul pavimento, quelle che gli sembravano la cosa più soffice e leggera che avesse mai visto.

Di nuovo aveva sentito quel desiderio di arrivare ad una estasi dei sensi. C’erano dei cerchi colorati di uno o più colori, e quasi tutti erano diversi. Guardali insieme era un piacere e soffermarsi su di uno particolare era un altro piacere ancora. Cosa che lo lasciva ad una reazione spontanea, senza volontà, era stato rapito e il rapitore era sempre lui medesimo. Imprigionato nel bisogno, il più profondo che avesse sentito, di un nuovo momento come quello che stava vivendo.

 

 

 

Il tessuto, infatti, gli si offriva al tatto perché potesse soddisfare la sua voglia. E questa era accresciuta dal contatto al punto da farlo sorridere nel dormiveglia. Un sorriso aperto e di sincera soddisfazione. 

La parete bianca che vedeva in sogno di fronte lo invitava senza nessuna lusinga. Lui la sentiva davanti a sé offensiva e provocante. Con un remissione che sfiorava il pentimento si era avvicinato al muro. Non poteva negare quello che il tormento dentro di lui gli mostrava. Era un intonaco di una bellezza e profondità che lasciva solo il silenzio e lo strazio. Quanto a lui, dopo quella visione, non rimaneva che il più assoluto rammarico di esistere.

Gli era sembrato impossibile che avesse fatto un sogno simile. Non ricordava esattamente, e parte di quello che rammentava, doveva essere dovuto allo sforzo di ricostruirlo. Quando si svegliò l’uomo e la donna che erano seduti nello scompartimento non c’erano. Era rimasto solo. Dal finestrino entrava la tagliente luce dei lampioni che sfrecciavano nella notte. Nel buio lo sguardo si perdeva. Una lampadina rossa e debole schiariva il locale. Dall’alto arrivava un soffio di aria calda.

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Il treno stava rallentando, con un suono acuto i freni fischiavano, i vagoni frenati nella loro corsa facevano leva sui perni che li univano uno con l’altro: piegandoli e comprimendoli, il treno rumorosamente di ferraglia sbatteva contro i morsetti.

La ferrovia fiancheggiava una strada, dove passavano le macchine più veloci superando Issen Bioden che le seguiva per una frazione infinitesima, e i lampioni illuminava le case, che rimanevano sotto il livello del terrapieno sopra il quale correvano i binari ed erano così basse che il tetto di tegole allineate era in vista come le serrande abbassate e le finestre chiuse.

Poteva vedere i cartelloni pubblicitari in lontananza e più vicino a lui i fili della luce che andavano da un palo all’altro e ancora più vicino, appena sotto il suo sguardo, i cespugli.

Quelli sembravano risvegliarsi alla luce che proveniva dai vagoni, erano come un confine tra la città e i campi del circondario, non si capiva quando fossero cresciuti  e perché se un anno fa o dieci anni fa, per caos o ordine; portavano piegati come elastici tutta la loro forza nel groviglio di rami sottili e verdi, forza minimale del cespuglio.

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   La velocità era un dolce e costante rallentare, accompagnata da un sibilo regolare e di lieve intensità, e lasciava presagire che la fermata era prossima. Dal corridoio venivano le voci delle persone che si erano messe in fila davanti alla porta. Erano un chiasso di parole, dove lui aveva afferrato solo uno sguardo: era quello di un uomo che era passato davanti al vetro della porta. Era stato guardato con diffidenza. Per essere così tardi si era risposto. A quest’ora nasce il sospetto che il proprio vicino possa essere di estremo pericolo.

L’ultima frenata fu brusca. Poteva vedere fuori dalla finestra l’insegna della biglietteria e quella della stazione ferroviaria. Il bar aveva la T di tabacchi spenta e l’edicola ancora esposto dei cartelloni pubblicitari davanti alla serranda di ferro grigio abbassata. Davanti a lui la scritta “Dern”.

Si alzò e prese la sua valigia che aveva appoggiato sulla retina sopra al sedile imbottito, aveva aperto la porta ed era uscito in corridoio: c’erano tre ragazzi fermi e intenti a ridere per un battuta di spirito, chiese scusa e disse permesso. Dopo averli superati si diresse dritto verso i gradini, era sceso e si era ritrovato sulla piattaforma.

Sentiva il freddo pungerlo e il corpo rispondere con la contrazione e il restringimento del sangue che si era fatto viola, la voce dietro alle sue spalle era quella di persone che stavano salendo: dovevano essere uomini avevano una voce dal  tono basso, gutturale.

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Camminando si era tenuto a distanza dalla gente che era sfollata lasciando un irreale silenzio davanti all’uscita c’era la notte scura che sembrava avere la porta di un mondo vuoto e buio. All’idea di essere ingoiato da quel niente si chiese “Dove è Mariane?”

La vide nell’ombra salutarlo con una mano. Lui si diresse verso di lei rassicurato da una sensazione famigliare. Era stato il riconoscimento che lo aveva sollevato dalla smarrimento e per quanto perdurasse il silenzio, gli aveva ridato un suono monotono a cui la sua coscienza era abituata. Si trattava di ripristinare la sensazione di abbandono nella quale era caduto, come se stesse precipitando davvero, con il riconoscimento che compiva l’effetto di ripristinare l’equilibrio. Al silenzio si era sostituito il suono dei suoi pensieri che di nuovo avevano cominciato a scorrere.

 “Sali” gli aveva detto e lui era rimasto stupito dal fatto che avesse preso l’automobile. Marine aveva cambiato pettinatura e portava i capelli raccolti da un fermaglio. Scendevano morbidi su colla e sulla fronte. Si era messa un capotto nero sopra una gonna dalla tinta giallo senape e una pullover col collo arrotolato. Lui si era abituato a vederla vestire in modo elegante, e con il marito.

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Marine aveva parcheggiato la macchina e illuminato con i fari la porta di casa. Issen era sceso e aveva preso la valigia dal baule. Marine aveva aperto la porta, acceso la luce, ed erano entrati. Si erano dati la buonanotte e Issen era salito sulle scale ed era entrato in una stanza e schiacciato l’interruttore la lampadina si era accesa. Aveva riconosciuto la stanza con il grande letto. Dormì.

 “Ciao” disse Effi, la giovane figlia di Marine, lo osservava dalla porta aperta.

Issen si era voltato e aveva visto una ragazza di quindici anni alta che portava pantaloni jeans e maglietta attillata. Aveva il viso con i tratti di una antica statua greca, le labbra come un fiore sbocciato, il seno morbido e flessuosamente era appoggiata allo stipite.

“Ciao, Effi” disse Issen meravigliato che lei lo vedesse in canottiera e mutande, con le braccia bianche e nude  e le gambe rammollite. Aveva la faccia piena di schiuma e si vergognava.

Effi lo aveva intuito e aveva sorriso. “Allora come va, non mi racconti niente!”

“Mi sto facendo la barba” gli aveva risposto con arrendevolezza.

“Si, questo l’ho capito: non mi hai portato un regalo?”

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“Ho avuto una giornata d’inferno: scusa non ho avuto il tempo”

“Poco male:  però sbrigati che dobbiamo uscire”

“Dove mi vuoi portare?”

“Devi venire a trovare i miei amici!”

 “Allora devo proprio venire a conoscerli?”

“Devi!”

 “Ti spiace aspettarmi fuori un minuto?” disse lui.

“No, ma sbrigati” gli aveva risposto lei.

La ragazza era uscita richiudendo la porta dietro di sé. “Possiamo andare” aveva detto lui uscito.

 

Fuori Bioden Issen si era avvicinato alla fontana. Uno dei problemi era proprio la circonferenza dei cavi telefonici: è se fossero stati - aveva pensato – per assurdo della dimensione della fontana. In questo modo si poteva scrivere un messaggio con altre proprietà. Tutto. Cambiava tutto, con le dimensioni.

 

 

 

Di lì loro due andarono in un cascinale isolato. Issen si ritrovò in un pollaio dove c’erano due ragazzi, e qualche pollo. Toccava a lui, Issen Bioden prenderne uno.

C’era un lieve tepore tra la paglia e le uova abbandonate. Il legno era così vecchi da sembrare sul punto di rompersi. Issen si era chinato per prendere il primo pollo che gli era capitato appresso ma non c’era riuscito ed era scapato via. Allora si era messo ad inseguirlo. Aveva un collo lungo e le piume ben stirate il becco nervoso e soffiava con i polmoni gonfiando il petto per lo spavento. Si era infilato sotto ad un asse e ora tutti lo circondavano. Issen allungò la mano ma si prese una beccata così il ragazzino gli afferrò le zampe e lo sollevò a testa in giù. Il ragazzo estrasse un coltello e tagliò la gola del pollo che iniziò a sanguinare. Il sangue, disse Effi porta tutto fino a tutto quello che c’è.

Effi lo attendeva in strada. Non c’era traccia dei suoi amici, lui e Effi erano ritornati alla piazza. Dall’alto le lancette dell’orologio si erano mosse di scatto, erano le undici esatte sul grande cerchio bianco con le lettere romane. Il tempo non si sarebbe fermato ma anche quando quel punto tempo dove si trovava dove essere la coincidenza di una partenza, con un arrivo.

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In un dato momento, pensava Bioder, anche il tempo avrebbe potuto essere un grande dispensatore di messaggi, un postino. E il tempo come un cane con la pancia piena di salame cattivo avrebbe vomitato quell’istante che lui stava vivendo. Sentiva che alla fine ci sarebbe stato un ritorno di quell’istante. Una partenza successiva di un oscuro messaggio. Sentiva che la natura era doppia di mittente da un lato e di ricevente. Concludersi e conservarsi per tornare.. Poteva essere un angelo ma non lo sapeva proprio, quello che gli piaceva era pensare che il tempo fosse un pensiero. Che risentisse dell’umore del pensante che quella sera doveva essere in armonia con sé, e che avrebbe lui il ripensato senza, tutto quando l’universo sarebbe stato vuoto e freddo.

 

 

 

 

 

 

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I lampioni illuminavano solo metà della strada, Bioden Issen si diresse verso quell’oscurità con la valigia in mano e la testa pesante per il pensiero che il teatro del suo viaggio aveva chiuso il sipario per sempre. Prima che la tenebra lo ingoiasse si fermò ad un portone. Cercò con le dita nella tasca le chiavi, poi sentì qualcosa di metallico e le estrasse. L’asciò la chiava sospesa un attimo argentea, poi aprì il portone. Era tornato a casa.

Come era possibile che la luce del suo appartamento fosse accesa? Dal cortile interno vedeva la sua finestra illuminata e aveva pensato chi fosse potuto essere entrato.

“Buona sera, Bioden” disse una donna che era uscita dall’androne con una sigaretta tra le dita.

“Questo pomeriggio e venuta una donna a chiedere le chiavi del suo appartamento, mi ha detto che aveva un messaggio per lei...”

“Certo, l’aspettavo”

“E allora perché non mi ha detto nulla!” disse la donna

“Non lo avvertita perché non lo sapevo quando”

“Strano, comunque le ho dato le chiavi”

“Cosa mi vuoi dire?” Chiese Issen Bioden

 

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 “Le volevo dire che mi hanno lasciato un lettera per lei da consegnarle di persona”

“Bene, me la dia!” disse Bioden.

“L’ho in casa su da me.”

La donna tirò l’ultima boccata di fuma dalla sigaretta e buttò il mozzicone per terra. Come per togliersi una mosca dalla faccia si aggiusto il ciuffo che cadeva sulla fronte. Poi si volto di scatto e si diresse verso l’ascensore.

“Non la trovo, eppure era qui!”

Se ne dovette andare Bioden senza avere la sua lettera. Ridiscese le scale e si trovò davanti alla porta del suo appartamento.

Quando B. apri la porta di casa sua, disse:

“Disabes..” disse piano. “Disabes..”

La lettera, era posata sulla poltrona come se fosse una foto che doveva ancora essere scattata.

 

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NOTA: LE VICENDE E I PERSONAGGI SONO IMMAGINARI, LA STORIA E' DI FANTASIA

 

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